S’illudeva chi si aspettava che Bossi desse soddisfazione all’insofferente popolo di Pontida staccando la famosa spina al governo Berlusconi. Con la sua oratoria che non ha più la foga trascinante d’un tempo ma che ne ha conservato la rude chiarezza, il Senatùr ha dato solo un mezzo ultimatum a Silvio, dettandogli condizioni per la maggior parte giuste (allentare la stretta fiscale, rivedere il patto di stabilità per i Comuni, abbandonare le missioni di guerra) ma con tempi talmente brevi da risultare palesemente strumentali. La Lega non ha veramente intenzione di mollare Palazzo Chigi, ma deve fare i conti con un alleato in avanzato stato di decomposizione. Il Pdl è allo sbando, la leadership di Berlusconi in crisi e non si vede una via d’uscita. Il problema per Bossi è dunque, con un partner sull’orlo dell’implosione, l’impossibilità di prevedere uno scenario di qui a un anno, quando, se la situazione non si sblocca, a sbloccarla potrebbero essere soltanto le elezioni anticipate. E così lui intanto mette le mani avanti preparando il suo partito all’eventuale campagna elettorale. Di qui l’annuncio di una Lega più aggressiva, di qui i “fatti” a scadenza immediata, di qui la netta presa di distanza da Tremonti e dal suo rigorismo finanziario. Di qui l’ennesima battaglia di bandiera escogitata per alzare il tono della polemica dentro la maggioranza: sto parlando, naturalmente, di quella falsa soluzione che è la delocalizzazione di ministeri al Nord. Francamente una boiata, come l’ha giustamente definita il sindaco di Roma, Alemanno. Tale e quale all’appiccicare il marchio padano alla scuola di magistratura di Bergamo, che con buona pace dei leghisti accoglierà futuri giudici di ogni parte dell’Italia.
E’ la solita Lega di finta lotta e di effettivo governo. Che promette sfracelli a Pontida ed è corresponsabile delle decisioni a Roma. Il “centralismo romano” che Bossi ha evocato come eterno nemico del Carroccio esiste senz’altro e continua ad essere un nemico delle autonomie locali, ma ci risulta che la Lega sia per la terza volta al governo, che lo stesso Bossi sia ministro, che titolare degli Interni sia il suo numero due, Maroni, e che insomma negli ultimi dieci anni i leghisti, pappa e ciccia coi berlusconiani, siano stati alla guida del paese molto di più del centrosinistra. Sguainare la spada di Alberto da Giussano facendo credere di voler tornare alle origini, come se finora le camicie verdi fossero state sulla luna, è patetico. Ma la difficoltà del momento, con la base che ribolle di rabbia per i mancati risultati, esige una ricalibratura tattica sul versante movimentista, agitando la minaccia di non sostenere un’altra volta Berlusconi premier.
Tattica, appunto. Perché la verità di fondo è che non è Berlusconi che dipende dalla Lega, ma è la Lega che fino ad oggi è dipesa da Berlusconi. Il “patto notarile” vede il partito padano in posizione subalterna rispetto ai dané e al potere televisivo di Arcore. Ci può pure essere, come ha Cazzullo scritto sul Corriere, un rapporto personale di gratitudine fra l’Umberto e Silvio legato all’aiuto che il primo ha ricevuto dal secondo in seguito ai suoi problemi di salute, ma la realtà è che la simbiosi fra la classe dirigente leghista e il mondo berlusconiano si fonda su interessi ben più concreti. No Berlusconi no party: nessun potere da spartire per una forza che è nel settentrione è determinante ma che a livello nazionale non supera il 10%. Il fatto nuovo è che adesso l’impero del Cavaliere cade a pezzi. Bossi, il cerchio magico che lo cinge come una balia e i suoi colonnelli, per una volta tutti uniti, hanno deciso di mostrarsi in fase di smarcamento, ma senza strappi o ribaltoni. Prendono tempo, in attesa di capire quali sembianze prenderà il dopo-Berlusconi. Potrebbe essere una questione di pochi mesi. Quelli necessari a cambiare la legge elettorale, magari assieme al Pd, e poi andare alle urne, cercando di razziare quanti più voti possibile con la faccia feroce, e secessionista a parole, della Lega d’antan. Ma è un bluff, come sempre. E’ stato proprio Bossi ad ammetterlo: ogni quindici anni si esaurisce un ciclo politico. Compreso il suo. (a.m.)
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