Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 18 luglio 2011

In ricordo di Indro


Fra quattro giorni saranno passati dieci anni dalla morte di Indro Montanelli. E’ sempre stato il mio mito. Non solo perché principe del giornalismo, penna formidabile e polemista impareggiabile, ma anche e soprattutto per la sua etica d’altri tempi e le sue umanissime debolezze. Volle scrivere per sé un epitaffio in cui si descrisse come un semplice giornalista. Era, prima di tutto, un uomo. Uno degli ultimi che l’Italia ha avuto prima di essere definitivamente sommersa da ometti, ominicchi e quaraquaquà.
Era cresciuto, il ragazzo di Fucecchio vicino Firenze, alla scuola della Voce di Giuseppe Prezzolini e di Omnibus di Leo Longanesi: riviste vivaci, dissacranti, innovative, all’insegna di una Destra legalitaria ma libertina, rigorosa ma ironica, conservatrice ma aperta al nuovo, borghese ma implacabile critica della vile borghesia italiana. Da convinto fascista volontario in Abissinia, ruppe presto col fascismo, che tuttavia lo lasciò continuare a scrivere per il Corriere della Sera. Quando, nel dopoguerra, tutti si erano trasformati all’istante in antifascisti, scrisse contro la macelleria messicana di Piazzale Loreto, contro la giustizia dei vincitori a Norimberga, contro il vento del Nord che spazzò via la Monarchia per far posto ad una Repubblica bloccata dall’inquietante presenza del primo partito comunista d’Occidente. Combattè senza sosta il conformismo culturale di sinistra portandosi dietro l’ingiusta fama di “fascista”, affibbiata a tutti coloro che divoravano i suoi articoli e i suoi libri (celebri le sue cronache da Budapest contro la repressione sovietica, la sua inchiesta su Venezia distrutta dall’industrializzazione, la Storia d’Italia finalmente liberata dalla pedanteria degli storici di professione) e che poi lo seguirono nell’avventura del Giornale Nuovo. Il quotidiano che diresse per quasi vent’anni – convivendo con una depressione cronica – era l’organo di quella minoranza di liberali ancorati al mito del Risorgimento, alla Patria depurata dagli eccessi del Ventennio, al mercato robustamente corretto da dosi intelligenti di Stato, all’anticomunismo spinto fino al famoso “turarsi il naso e votare Dc”, al rispetto delle istituzioni e dello Stato. Insomma di una Destra che nel nostro Paese, com’era solito affermare, non è mai esistita se non nei primi anni dell’Unità. Una Destra immaginaria che niente ha a che spartire con quella pataccara introdotta da Silvio Berlusconi assieme agli ex missini di Gianfranco Fini e col concorso dei leghisti di Umberto Bossi. Montanelli lasciò la sua creatura perché quando il patron della Fininvest decise di scendere in politica infranse il patto che fino al 1993 aveva garantito a Indro l’indipendenza nel dirigere il Giornale: lui, Silvio, era il proprietario e badava ai quattrini; Montanelli era il padrone e unico depositario della linea editoriale. Berlusconi praticamente lo costrinse a fare le valigie, scavalcandolo nel dare l’aut-aut a redattori e collaboratori: o con lui e la sua Forza Italia o contro di lui e fuori dal Giornale. La maggior parte seguì il direttore nelle breve, disperata sfida della Voce (omaggio all’amico e maestro “Prezzo”), il più bell’esempio, assieme all’Indipendente del non ancora berlusconizzato Feltri, di giornalismo corsaro degli ultimi vent’anni.
Una rottura, questa, che diede un sapore amaro all’ultima parte della sua vita, ch’ebbe tuttavia il ristoro di un quotidiano dialogo coi lettori grazie alla “Stanza” delle lettere che il Corriere gli affidò in un ideale ritorno alle origini in via Solferino. Una vita, quella di Montanelli, segnata come tutte da errori, giudizi sbagliati, vere e proprie cantonate. Cilindro guardava l’Italia con le lenti di un passato che non c’era più. La sua, come ha scritto Massimo Fini di recente, era «un’Italia vecchia, ottocentesca, liberale, l’Italia della grande borghesia e dei notabili, passabilmente ipocrita, bacchettona, morente». Quella nuova, l’Italia di Berlusconi che oggi pure volge al termine, era ed è il paese volgare, sbracato, senza valori, senza orgoglio e sfacciatamente delinquenziale che conosciamo. Un’Italia in cui un temperamento malinconico e fiero, da hidalgo spagnolo come il suo non poteva trovare posto né poteva essere da lui capita.
Ed è proprio questo spirito indomito e solitario a farmelo amare. Non certo la sua ideologia liberale classica, sconfitta dalla storia tanto quanto il socialismo più o meno reale. Non certo il suo antiquato conservatorismo, seppur nobile e ammirevole proprio perché ostinatamente inattuale e controcorrente. E men che meno il suo filo-americanismo, divenuto anacronistico e masochistico già dopo il crollo del Muro di Berlino. Indro per me resterà sempre un modello perché aveva carattere (un brutto carattere come tutti gli uomini che ne hanno uno), che seppe tratteggiare in poche parole rivolte a un giovane, qualche tempo prima di morire. Queste: «L’unico consiglio che mi sento di darti, ma che ti prego di non seguire, è di non essere mai dalla parte del vincente del turno. Se ne hai il coraggio, sii sempre dalla parte del perdente. Ma di coraggio ce ne vuole molto, perché costa caro». (a.m.)

PS: con il post di oggi l’Asso di Picche si ferma fino alla seconda metà di agosto. Scriverò un libro e mi darò agli ozii, un po’ voluti un po’ subìti. Buona estate.

domenica 17 luglio 2011

La Bottene smentisce

Ieri mi ha telefonato Cinzia Bottene per una smentita che riporto doverosamente e, devo dire, con piacere. Mi ha assicurato che lei non ha mai sentito nulla riguardo a una possibile uscita pubblica del Presidio No Dal Molin contro il sottoscritto bollandomi come “fascista”. Mi fido della sua parola, come sempre garbata, e pertanto non ho problemi a dire che, se le cose stanno come dice lei, avrò preso senz’altro un granchio.
Il mio errore, tuttavia, non cancella il fatto che la parte del movimento a cui nonostante tutto mi riterrei più vicino perché (almeno in teoria) meno istituzionale, si muove come un circuito chiuso e ideologicamente blindato, e quel che è peggio, troppo disinvoltamente incline a istituzionalizzarsi mettendosi a rimorchio del sindaco Variati. Un’occasione sprecata per Vicenza. (a.m.)

sabato 16 luglio 2011

Brave new world

Non dico certo niente di nuovo o sorprendente, ma per descrivere il mondo di oggi è più utile Brave New World di Aldous Huxley piuttosto che 1984 di George Orwell. Il totalitarismo che viviamo sulla nostra pelle è avvolgente, indolore, sottilmente persuasivo, ma tolta la maschera di permissività e individualismo, il dogma "produci, consuma, crepa" condiziona in modo ferreo e implacabile il nostro inconscio. Sotto la superficie di luci e gioie artificiali  si percepisce un fondo di disperazione, ribollente fra crack finanziari, vite precarie, finta democrazia e società dello spettacolo. Crediamo di essere liberi, e siamo schiavi.
Sotto molti aspetti la società del Mondo Nuovo può essere considerata utopica e ideale: l'umanità è finalmente libera da preoccupazioni, sana, tecnologicamente avanzata, priva di povertà e guerra, permanentemente felice. L'ironia tuttavia è che questa condizione ideale è ottenuta sacrificando le cose che generalmente consideriamo importanti per l'essere umano: la famiglia, l'amore, la diversità culturale, l'arte, la religione, la letteratura, la filosofia e la scienza. In questo senso la società del Mondo Nuovo è una "distopia", cioè un'utopia ironica o negativa.
I cittadini del Mondo Nuovo non hanno alcuna nozione della storia passata, salvo sapere, per il condizionamento avuto, che nel passato sono successe cose orribili e che quello di oggi è il migliore dei mondi possibili. Sanno che gli esseri umani in passato erano vivipari e che esistevano nascite e genitori, ma questi concetti sono un tabù, le parole "madre" e "padre" sono usate come insulti. Sono inoltre proibiti l'amore per i libri – in quanto "mezzi sovversivi" con il quale potrebbe avvenire un decondizionamento - e la passione per i fiori – proibiti in quanto gratuiti e perciò intollerabili in una società consumistica.
Forse la cosa più sorprendente della società descritta nel romanzo è il comportamento dei suoi cittadini. Le caste inferiori, prodotte per clonazione, mostrano una forte mentalità gregaria, ma anche gli individui delle caste superiori, dove da un embrione si ottiene un solo individuo adulto, sono condizionati ad accettare il sistema di caste e le consuetudini sociali che discendono da esse. Nel corso del romanzo, spesso i personaggi citano gli slogan imparati durante il condizionamento che hanno ricevuto. È considerato normale essere molto mondani, avere una vita sessuale totalmente promiscua fin da piccoli, allontanare i pensieri negativi con il soma (che ha come unico effetto negativo quello di accorciare la vita di qualche anno, ma per la felicità il prezzo non è poi così elevato), praticare sport ed essere, in genere, buoni consumatori. È invece inaccettabile passare del tempo in solitudine, essere monogami, rifiutarsi di prendere il soma ed esprimere opinioni critiche nei confronti degli altri e della società. (da Wikipedia)

venerdì 15 luglio 2011

Nordest, morte di un mito

Come minimo sarà la decima volta che si sente dire che il modello Nordest è finito. Ormai la crisi del cosiddetto Nordest è un luogo comune, esattamente come prima lo era la sua glorificazione. Argomenti buoni per convegni, editoriali e salotti più o meno inutili. Il Nordest, infatti, non è mai esistito. Se non come etichetta giornalistica ideata dalla immaginifica penna di Giorgio Lago, compianto direttore del Gazzettino degli anni ruggenti.
«A parte la definizione in sé, cioè in una zona che sta a nord-est dell’Italia, non c’è nessuna omogeneità né politica, né di tradizioni che accomuna questo territorio», ha scritto la giornalista economica Alessandra Carini nel suo aureo libretto “Lettere da un sistema mai nato” (Marsilio, 2007). L’unico comun denominatore è stato innegabilmente economico: un pulviscolo di medie, piccole e piccolissime imprese, singole o radunate in distretti, per lo più orientate all’esportazione, il cui boom è avvenuto negli anni ’90 grazie alla lira debole e ai vantaggi di una competizione globale non ancora inondata dai prodotti orientali e cinesi in particolare. Ma non ha mai fatto davvero “sistema”, l’area del Triveneto. Ogni azienda si è sviluppata pensando a sé stessa e alla propria filiera, ogni distretto ha fatto da sé, ognuna delle tre Regioni (Veneto, Friuli, Trentino-Alto Adige) è andata per conto suo, e i campanilismi fra province sono rimasti intatti quando non si sono accresciuti.
La realtà è un’altra: esistono i Veneti, i Friuliani, i Trentini, i Sud Tirolesi, e fra di loro ci sono più differenze, culturali, politiche, storiche, che somiglianze. Ed è inevitabile che tali diversità si riflettano sul tessuto economico, che difatti presenta la caratteristica principe che davvero li lega: il localismo. Al contrario di un altro, tronfio pregiudizio che vuole la globalizzazione come un bene in sé, per me “localismo” non è una parolaccia. A ben guardare, non è nient’altro che l’espressione dei caratteri specifici di un luogo. Nulla di malefico o di trascendentale. Il pensiero unico afferma perentorio: la spinta localista ostacola la necessità, considerata un obbligo indiscutibile, di aggregare, unire, accentrare. E si parla solo dell’organizzazione del territorio in termini di infrastrutture, credito bancario e coordinamento amministrativo, ma anche delle imprese stesse, che devono fare il salto di quantità e ingrandirsi. Come faceva giustamente notare sul Corriere del Veneto di ieri Beppe Bortolussi della Cgia di Mestre citando l’economista Krugman, l’economia mondiale vede in crescita il gigantismo soltanto in pochi ambiti (automobilistico, bancario ecc), per il resto la piccola e media dimensione rimane la più diffusa e vincente. L’ecatombe di chiusure, tracolli e ristrutturazioni è dovuta a un crack di origine finanziaria che dalla Lehman Brothers si è riverberata fino all’ultimo sperduto padroncino.  L’autentico problema del nostro modello di sviluppo, la cui spina dorsale è la micro-impresa, è rappresentato proprio dallo strapotere incontrollato e anarchico della finanza, che non rispetta nazionalità, peculiarità, storia, sudore e fatiche. Per la locomotiva nordestina in rottamazione è la nemesi: dall’incipiente internazionalizzazione dei mercati ha preso lo slancio iniziale, dalla sua maturazione spietata e delocalizzatrice ha ricevuto il colpo mortale. Il risultato è una terra sfruttata all’osso, sconciata e desertificata, ridotta a una desolante successione di capannoni mezzi vuoti, con le ditte un tempo protagoniste del “miracolo” costrette a trasferirsi nell’Europa dell’est o in Estremo Oriente. Il Nordest, in pratica, si è auto-abolito.
Potrebbe sembrare cinico e sicuramente è tremendo il solo pensarlo, ma la salvezza potrà arrivare da un’altra, questa volta definitiva implosione della bolla di debito su cui galleggia il mondo intero. Solo allora, se chi vive di lavoro produttivo si sveglierà per i morsi della fame vera, solo a quel punto, forse, ci si deciderà a ricominciare a far politica e metter mano a un’economia impazzita e fuori controllo. Come? Ad esempio, una volta che l’euro sia diventato carta straccia, battendo una nuova moneta libera dal debito del signoraggio a cui affiancare valute locali, secondo le idee di quel grande che è stato Gesell, eretico volutamente cancellato dai libri di storia. E ancora: riprendendo quella sana, naturale predisposizione dell’animo umano a difendere la vita e il lavoro della comunità in cui si vive, adattandola al contesto, ahimè consolidato, della mondializzazione. Quindi accantonando definitivamente il feticcio degli Stati nazionali sovrani di nulla, e facendo dell’Europa unita e radicata nelle regioni un mercato autosufficiente, basato su un sistema che non insegue una crescita infinita non più possibile, ma su consumi più umani e sulla produzione sostenibile di energia (in Germania si stanno già diffondendo a macchia d’olio gli impianti domestici di autogenerazione solare ed eolica). Una combinazione di localismo economico ed europeismo politico contro la dittatura degli anonimi mercati globali. Altro che le chiacchiere sul Nordest. (a.m.)

giovedì 14 luglio 2011

Aim, il sospetto: piano Borra 2?


«Il futuro del gruppo passa per una parziale apertura al mercato, per lo meno per il gas… Detto che alcuni settori rimarranno ovviamente in house, come i servizi alla città, dovremo capire e valutare se e cosa scorporare per rispondere alle esigenze della società e alle necessità delle leggi e del mercato». Così ieri l’assessore alle finanze e alle partecipate Umberto Lago, commentando il bilancio della multiservizi comunale Aim. Se San Biagio doveva essere risanata per darne in pasto il boccone più ricco, ovvero sia il settore gas, alle iene private, allora tanto valeva lasciarla in mano ai Rossi e agli Zanguio. Il gas, infatti, poteva e può essere scorporato dall’azienda in tutti i casi: se questa avesse il fiatone, perché così si sbolognerebbe platealmente il corpaccione in perdita, o in risicato pareggio, al Comune (luce, trasporti ecc), e si regalerebbe il comparto in attivo al privato; se invece è, come ieri ha mostrato il presidente Roberto Fazioli, in buono stato quanto meno contabile, lo si annuncia all’opinione pubblica come precondizione all’ingresso dei privati.
Il primo scenario ci mancò poco che si realizzasse a cavallo fra il 2006 e il 2007, sul finire della presidenza dell’aennista Beppe Rossi: l’allora advisor Maurizio Borra preparò un piano che attraverso una newco sbilanciata a favore di una precisa cordata locale (Valbruna, Beltrame, Marchi, Stabila, Zignano, Marzotto, Forge, Mastrotto) prevedeva la svendita di fatto del gas Aim. Fu la ribellione del cda, in particolare dei suoi elementi in quota Forza Italia, a fare naufragare il progetto, e che fece dire in seguito al consigliere d’amministrazione Bruno Carta (oggi segretario cittadino del Pdl) che quella bocciatura fu «l’inizio di tutti i guai», mediatici e giudiziari, per la gestione targata centrodestra.
La seconda prospettiva ce l’abbiamo davanti: un’Aim che fa sfoggio di ottima salute e che perciò ha le carte in regola per tagliare gli ormeggi e buttarsi in mare aperto, offrendosi sul mercato. Ora, se fosse davvero mercato, se ne può pure discutere. Ma a patto che imbarcare nuovi soci avvenga senza vendite ad hoc ai soliti noti, e soprattutto senza svendite che farebbero perdere un patrimonio pubblico per far contento il business privato. Insomma, preghiamo cortesemente il sindaco Achille Variati (che non ne può più di Fazioli fra i piedi e non vede l’ora di sostituirlo col suo caro Angelo Guzzo)di non farci assistere a un replay, magari ammorbidito e abbellito, del piano Borra. Già dobbiamo sorbirci un Pp10 riveduto e migliorato col nome di Green Way, se poi fosse lui a mandare in porto, in copia più o meno carbone, la madre di tutte le più indecenti privatizzazioni, verrebbe quasi voglia di abbandonare il sacrosanto pregiudizio che ci fa preferire, turandoci il naso, lui, il democristiano col senso del marketing, a Manuela Dal Lago. (a.m.)

mercoledì 13 luglio 2011

La psicologia della corruzione secondo Risé

Il corrotto è il grande protagonista dei nostri giorni. Tanto da occupare ormai da tempo, nei paesi sviluppati, il centro dell’attenzione collettiva. Non solo nelle cronache politiche e giudiziarie, dove naturalmente troneggia, ma anche in quelle finanziarie, militari, ecclesiastiche, accademiche.
Chi è però il corrotto, qual è la sua psicologia, come si diventa tali? Cosa favorisce la moltiplicazione dei corrotti, perché in certe epoche essi si moltiplicano, e in altre sembrano sparire? L’osservazione empirica, sia statistica che clinica, toglie di mezzo alcuni diffusi luoghi comuni sull’argomento.
Per esempio non è vero che la corruzione sia figlia delle miseria, che chi accetta di farsi corrompere lo fa per mancanza di mezzi. Questo nella realtà è piuttosto raro, mentre è molto più frequente il rapporto tra comportamenti scorretti e illegali e abbondanza di ricchezza, personale e collettiva.
Quasi sempre, è proprio nei periodi storici nei quali si sono create rapidamente notevoli ricchezze, e quindi nuove e recenti classi agiate, che si sviluppano comportamenti illegali per far crescere quei patrimoni ancora di più, sempre più in fretta.
La corruzione è, insomma, quasi sempre un comportamento che tenta di aumentare e moltiplicare una ricchezza conquistata recentemente, e senza troppa fatica. La disponibilità alla corruzione ha in sé, come dimostrano anche le cronache recenti, tratti del clima psicologico dell’euforia (tipica appunto dei “boom” economici), coi suoi caratteristici aspetti più o meno esibizionisti e mitomaniaci: l’interesse per lo star system, il mito di arrivare a camminare su qualche tipo di “red carpet”. Appare comunque chiara, nella sottocultura della corruzione, la fatica a contenersi, a tenere qualcosa per sé, che caratterizza invece sia le situazioni di scarse disponibilità economiche, sia quelle di ricchezze costruite nel tempo, attraverso la fatica e il lavoro.
Dal punto di vista psicologico e delle strutture di personalità, l’esperienza del lavoro, dello studio e della fatica tende a sviluppare quei tratti, anche morali, di introversione, e di disciplina necessari per affermare la propria posizione nel mondo, mentre il trovarsi rapidamente con ottime disponibilità di denaro svaluta sforzi e contenimenti, e predispone all’orizzonte di “facilità” che la corruzione propone. E’ per questo che la sobrietà è un valore ed un comportamento, quasi unanimemente condiviso nei momenti di sviluppo, mentre la corruzione e l’esibizione del lusso tende poi a dilagare nei periodi immediatamente successivi, quando si tratta di “digerire” quella ricchezza, di incorporarla stabilmente sia nelle strutture produttive e politiche che nei comportamenti e nei valori condivisi.
E’ allora, nell’euforia collettiva e già staccata da un solido rapporto con la realtà, che affonda le sue radici la psicologia e lo stile della corruzione. In tutti i casi il corrotto è caratterizzato da un tratto di debolezza e dipendenza da comportamenti collettivi (consumi “di prestigio”, stili di vita reclamizzati dalle comunicazioni di massa), che rivela un vacillante senso di sé, una sostanziale incapacità a “fare da soli”, senza appunto gli aiuti forniti dalla corruzione. Una delle aziende che hanno guadagnato di più al mondo nell’anno di crisi da poco terminato, Ikea, è di un signore che vive in un paesino non segnato sulle carte geografiche, sperduto nei boschi sopra a Losanna. La dedizione al lavoro e al basso profilo di tipi così, costruttori di sviluppo aziendale e collettivo, è il contrario dell’esibizionismo da cinepanettone dei corrotti.
Il Mattino, 11 luglio 2011

martedì 12 luglio 2011

Io e i trinariciuti di sinistra

Ho saputo che al Presidio Permanente c’è stato qualcuno a cui non è piaciuto affatto il mio post dell’altro ieri sulle pseudo-compensazioni del Dal Molin americano. Mi riferisco al responsabile comunicazione, Marco Palma, che con me non comunica da un pezzo, nemmeno mi saluta. E’ noto che il già giovanissimo segretario dei Comunisti Italiani (a cui su VicenzaPiù a suo tempo feci un’intervista-ritratto che difendeva il suo distacco dal cupo dogmatismo del suo ex partito) non mi ama, anzi mi detesta. Non l’ho sentito, ma a quanto ne so pare mi abbia dato del “fascista”, a me e al collega e amico Marco Milioni della Sberla.net. Che io non gli stia simpatico per le mie prese di posizione critiche sul Parco della Pace mi lascia indifferente, problemi suoi. Quando però uno ricorre all’anatema infamante e arbitrario e per giunta – mi si dice in questo caso – viene richiesta alle voci più rappresentative del Presidio, cioè Cinzia Bottene, Olol Jackson e Cesco Pavin, la condanna pubblica e ufficiale, a quest’uno mi sento di dover rispondere.
Per nulla caro Palma, sarei davvero curioso di sapere in base a quali mie opinioni deduci che io sia un “fascista”. Sono un nostalgico del vecchiume archeologico in fez e camicia nera? Non direi proprio. Se c’è una persona che non ne può più di passatismi ideologici, quella persona sono io. Ho mai espresso un’idea anche solo vagamente autoritaria, ho inneggiato in un solo articolo a qualcosa che ricordi magari da lontano la dittatura, il partito unico, lo stato di polizia? Impossibile: sono un libertario per istinto. Sono un nazionalista? Manco per niente: il mio orizzonte ideale di autogoverno è il Comune, o comunque la comunità locale, e mi ritengo un federalista. Sono antidemocratico? Figuriamoci: per me il sogno è la democrazia diretta (opportunamente applicata nei limiti del possibile, l’importante è che questo possibile sia effettivo e faccia premio sulle minoranze organizzate che ne usurpano il nome: parlo dei partiti e dei potentati finanziari e industriali).
Il Palma da cosa potrà desumere, allora, che io sia quel che non sono? Semplice: dal fatto che mi vede come un sabotatore della causa. E tale sarei perché per lui vale l’eterno, ignobile adagio “o con noi o contro di noi”, e se non sei con noi, che siamo di estrema sinistra, automaticamente diventi un fascista. E’ l’antico e mai morto ostracismo che la sinistra più fanatica ha sempre usato per emarginare e additare come nemico chi non si mette al suo servizio e non ne loda le gesta. Nel Presidio, purtroppo, questo clima di intolleranza esiste. Un anno fa aveva portato a liquidarmi come “aspirante Giuliano Ferrara in salsa berica”, perché mi sarei limitato a scrivere contro la base Usa restando incollato alla scrivania. Bene, a parte che dell'inqualificabile Ferrara per mia fortuna non ho la lardosa stazza, chiariamo una volta per tutte: quella volta che tentai di partecipare a una delle abituali riunioni del martedì sera, credo fosse il 2009, mi sentii dire che non potevo neppure assistervi in quanto giornalista, e fui cortesemente accompagnato fuori dal tendone. Delle due, l’una: non si può accusarmi di essermene stato nelle retrovie se quando ho provato a partecipare da cittadino mi è stato proprio rinfacciato di essere un giornalista, quasi uno spione.
La verità è un’altra: a Palma e a quelli come lui non aggradano le voci non organiche, non embedded, che non si adattano alle decisioni che il ristretto gruppo di comando di Ponte Marchese prende secondo una sua legittima, ma opinabilissima e contestabilissima, linea politica. Si veda quante defezioni e spaccature sono avvenute in questi anni: Raniero, la Equizi, la divisione con Albéra e con il versante più moderato del movimento. La mia colpa è stata questa: non ho mai preso la tessera del Presidio. Dopo aver appoggiato la battaglia No Dal Molin restando tuttavia un osservatore indipendente da tutto e da tutti (questo è fare il giornalista, e sfido chiunque a dimostrare il contrario), ho avuto l’ardire di continuare a esserlo esprimendo giudizi con la mia testa, che un giorno non sono più stati allineati, guarda un po’, alla condotta del Presidio. Insomma: quando scrivevo a favore, silenzio e tutto sommato simpatia; appena ho osato non esser più d’accordo, sono diventato un culo di pietra, e oggi addirittura un fascista.
I veri fascisti sono coloro che considerano tale chi non la pensa uguale a loro. Ringrazio in particolare la Bottene, donna semplice, di suo onesta, aliena dagli integralismi ma che deve sottostare a questi stalinismi di ritorno, per non aver accettato di far da megafono agli inaccettabili metodi di certi trinariciuti amanti della fatwa. (a.m.)

lunedì 11 luglio 2011

Il lavoro rende schiavi

Il troppo lavoro rende schiavi. Perderlo può uccidere. Le storie di imprenditori e lavoratori veneti suicidi, una ventina dal 2008 a oggi, raccontano il lato oscuro di un modello di vita tutto casa e lavoro, distrutto dalla logica spietata dell’economia globale.
Il primo caduto in questa guerra fra nuovi poveri è stato uno che viveva di stipendio, un grafico pubblicitario quarantaduenne di Padova. Il 28 settembre 2008 si è impiccato nel suo appartamento lasciando uno scarno e glaciale biglietto in cucina: «Io non sono il tipo che si fa pagare le bollette». A distanza di poche settimane, sempre nel Padovano, lo hanno seguito un impresario edile di 60 anni, che non ha retto al baratro di debiti in cui era sprofondato, e un padroncino di 36 anni trovato morto nel suo furgone con un testamento di tre parole nel telefonino: «Ho speso tutto». 
Nel maggio 2009 senza dire nulla si è tolto la vita Valter Ongaro, imprenditore 58enne della provincia di Treviso, che nella sua azienda di verniciatura del legno aveva dovuto licenziare otto dipendenti. Per lui erano come “fioi”, come figli. Viveva come il classico piccolo industriale veneto: in azienda dall’alba alla sera, ferie e feste ridotte al lumicino, sudore stress e sacrifici. Ma anche tanta soddisfazione che risplendeva nel bel giardino della villa bifamiliare che, manco a dirlo, sorge a poche centinaia di metri dalla fabbrica e che condivideva col socio, il fratello Daniele. Al suo funerale un ex compagno di scuola tentò di fornire una spiegazione razionale alla tragedia: «Qui, in trent’anni, da niente siamo arrivati ad avere tutto. Dalla bici siamo arrivati all’aereo, le macchine grandi. E ora pensare di tornare alla bici è insopportabile». Dopodiché la politica si avventò ignobilmente sul caso strumentalizzandolo con proposte di intitolare al suicida una “medaglia al lavoro” e polemiche conseguenti, a cadavere ancora caldo. 
Chissà invece cosa aveva scritto nella sua lettera d’addio al mondo Danilo Gasparrini, anche lui sulla sessantina, di Istrana nel Trevigiano, gasatosi dentro la sua auto vicino a un cimitero il 7 dicembre 2009. L’anno prima aveva diviso la società di marmitte e meccanica che gestiva col fratello, ma le due aziende non andavano più bene, e la sua andava anche peggio. Di un fatale senso di impotenza doveva soffrire Pietro Tonin, una ditta edile messa malissimo, uccisosi gettandosi nel fiume Piovego a Noventa Padovana. È stato ripescato il 3 gennaio 2010: aveva le mani legate dietro la schiena. Lo psicologo del lavoro Angelo Boccato, docente al Dipartimento di Sociologia dell’università patavina, ravvede nel gesto irreparabile la conseguenza di un cupio dissolvi senza scampo: «il piccolo-medio imprenditore di solito ha una personalità molto narcisista, quando sente di perdere terreno non condivide con nessuno il problema, non vuole dimostrare il fallimento, non sopporta di perdere potere e mezzi: il suicidio annulla tutto, anche la vergogna» (Corriere del Veneto, 18 marzo 2010). 
Non può annullare, però, le sorti dei dipendenti lasciati sulla strada. Il paròn di queste parti ha un rapporto simbiotico, di amicizia coi suoi sottoposti, li tratta da pari a pari, per lui come per loro non esiste differenza di classe o d’interesse. «Chi decide di farla finita, rientra spesso nella tipologia dell’industriale veneto che vive l’azienda come una seconda famiglia. È un paròn che quella famiglia non può sopportare di perderla», spiega Boccato. Il dramma di Paolo Trivellin, 46 anni di Noventa Vicentina, sta lì a dimostrarlo. Proprietario di un’impresa di intonaci, il 22 febbraio 2010 non ce l’ha più fatta a sopportare la situazione: da mesi non riusciva a pagare gli operai, scesi in piazza a protestare. Con macabra diligenza ha lasciato biglietti d’addio alla moglie, ai due figli e al cugino con cui gestiva l’azienda. Si sentiva in dovere di scusarsi: «Mi dispiace davvero se le cose sono andate male con la società. Ho sbagliato». 
Nel girone infernale delle morti da lavoro che non c’è, si sono dissolte le esistenze di dirigenti (Stefano Grollo, 43 anni, buttatosi sotto un treno nel maggio 2009 in un paesino vicino Treviso, vittima dell’ansia per la cassa integrazione imminente per il “suo” personale), di operai (cinque nella primavera 2009: un ghanese di 37 anni, cassintegrato della concia di Arzignano, a cui avevano tagliato luce e gas e che si è ammazzato bevendo soda caustica, un rumeno senza stipendio da qualche mese, un quarantenne del Padovano licenziato e datosi fuoco, un ex impiegato 32enne della chimica a Marghera, un veneziano disoccupato che si è tagliato le vene) e anche di politici (Lorenzo Guglielmi, assessore al bilancio del Comune di Rosà nel Vicentino, impiccatosi nel suo casolare dopo la perdita del posto di promotore finanziario). 
È un’intera società, insomma, quella del Veneto iper-lavorista, a essere corrosa dal male di vivere. Per molti, qui, la vita è il lavoro. Perciò, se non c’è lavoro non c’è più nulla per cui valga la pena di vivere. Ne deriva un estremo, pauroso pudore nel parlare di sé e dei propri problemi, anche coi giornali. Ha funzionato soltanto il servizio di SOS telefonico istituito dalla Camera di Commercio di Padova nel marzo dell’anno scorso. Nei primi sette giorni sono arrivate 120 chiamate, anche dal Centro e dal Sud Italia, per chiedere un supporto psicologico. Emblematica la prima telefonata: un angosciato consulente aziendale del capoluogo padovano che si è presentato come uno che ha sempre «lavorato duro e tanto» ma che è passato nel giro di un anno «dal lavorare 12 ore a zero». Senza poter sgobbare tutto il giorno, si sentiva uno zero. (a.m.)

domenica 10 luglio 2011

Un piatto di lenticchie


Si può compensare o ridurre il danno rappresentato dalla più grande base militare Usa in Europa in costruzione al posto di un’ex aeroporto civile, tolto d’imperio alla comunità locale, da uno Stato che si priva di un’area di sua proprietà pur di obbedire ai desiderata di una potenza straniera, alleata di nome e padrona di fatto? Per un cittadino che non voglia rassegnarsi alla condizione di suddito, la risposta non può essere che no. La nuova caserma al Dal Molin di Vicenza era e resta un clamoroso abuso: di sovranità nazionale, perché l’Italia, indifferentemente governata dalla destra o dalla sinistra, ha regalato una porzione di territorio a Washington che vi installa truppe e armamenti usati per guerre americane (Irak, Afghanistan); di sovranità locale, perché Roma non ha riconosciuto alcun diritto di autodeterminazione alla popolazione vicentina negandole finanche una semplice consultazione (avvenuta comunque in modo autogestito, senza valore legale), e questo in base a un’inesistente natura di “difesa nazionale” attribuita a un insediamento interamente extraterritoriale; infine è stato uno stupro di democrazia - la tanto decantata democrazia - perché a vent’anni dalla fine della Guerra Fredda il trattato bilaterale del 1955 che ha dato legittimità formale al via libera italiano è coperto da un anacronistico segreto che ha reso impossibile qualsiasi trasparenza sui lavori, sulle conseguenze ambientali, su eventuali dotazioni belliche, e che soprattutto nega agli italiani tutti di poter rifiutare, se lo volessero, concessioni così umilianti e arbitrarie.
Detto questo, si può capire che gli amministratori locali cerchino di salvare il salvabile e portare a casa almeno qualche contropartita per non vedersi cornuti e mazziati. Mercoledì 6 luglio il sindaco Achille Variati (Pd) ha firmato un protocollo d’intesa col governo in cui ottiene un magro piatto di lenticchie: 10,5 milioni di euro per la bonifica del terreno rimasto libero per farsi il suo amato Parco della Pace (foglia di fico, ahimè, della sconfitta del No Dal Molin, anche se sempre meglio di ulteriori cementificazioni lobbistiche), e l’impegno, con tanto di data (31 marzo 2012), a sbloccare il finanziamento della tangenziale nord che dovrà collegare la nuova all’altra base americana, la Ederle, e che sarà in capo all’autostrada Brescia-Padova su mandato dell’Anas. Tutto qui? Tutto qui. Il solito, sgradevole trionfalismo di Variati non è giustificato da nulla. Primo, perché il parco che sorgerà accanto al Dal Molin Usa resterà di proprietà del demanio militare e lo Stato potrà riprenderselo quando vuole, magari per ampliare ancora la caserma se mai un bel giorno il Pentagono, padrone a casa nostra, lo reclamasse. Per soprammercato, i costi della manutenzione della futura zona verde saranno a carico del Comune, cioè dei vicentini. Secondo, come ha fatto giustamente notare in qualità di presidente della Brescia-Padova il capo della Provincia, il leghista Titti Schneck, la promessa di assegnare il cantiere della tangenziale all’autostrada significa fare i conti senza l’oste: la società non può impegnarsi in nessun progetto a lungo termine dal momento che la concessione scade nel 2013 e il suo rinnovo al 2026 è appeso al sì della Provincia di Trento alla realizzazione della Valdastico Nord.  
Un minimo senso della responsabilità imporrebbe da un lato che l’area lasciata libera dal diktat statunitense fosse stata trasferita al patrimonio comunale come risarcimento quanto meno simbolico alla calpestata Vicenza, e dall’altro che i soldi per la tangenziale e per le altre opere di raccordo e sostenibilità urbanistica fossero stati garantiti dagli Americani. Ma c’è il fatto che gli Stati Uniti non sborsano un dollaro per niente che non sia utile nel perimetro delle loro basi. Perciò, se l’accordo verrà rispettato, saranno i clienti dell’autostrada coi loro pedaggi a pagare una tangenziale di quasi 300 milioni di euro. Questo è il mesto epilogo di una lotta, quella contro il Dal Molin a stelle e strisce, che era stata un punto di riferimento per l’orgoglio nazionale, democratico e localista. Almeno lo è stata fino a quando i No Dal Molin, succubi del riflesso pavloviano a sinistra, non l’hanno consegnata nelle mani di un abile politicante come Variati, che l’ha cavalcata e poi scaricata, e che oggi canta vittoria sulle rovine di un danno a cui si è aggiunta un’amara beffa. (a.m.)