Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

mercoledì 19 dicembre 2012

Intervista: “Alessio Mannino, giornalista dall’animo rock”



Direttore di un giornale on-line durante la settimana, rockettaro convinto e impenitente nei week-end. È Alessio Mannino, 32 anni, vicentino. Ex pigafettiano, sezione A del classico tradizionale, uscito dal nostro liceo con un bel 100 (nonostante capisse davvero poco di matematica e fisica) e poi laureatosi a Padova sette anni fa in Scienze della Comunicazione. Esperienze particolari? Una tesi sulla tv, di cui ancora si stupisce: “Ancora oggi non mi capacito di come potevo pensare di lavorare in un mezzo che davvero non farebbe per me.- e aggiunge – Ma speriamo che qualche direttore tg non mi legga: nella vita non si può mai sapere…”
Dopo aver sbirciato il suo giornale “La Nuova Vicenza” sul web, l’abbiamo intervistato.
Da ex studente del Pigafetta, si ricorda qualche professore in particolare che le è rimasto impresso?
Al ginnasio, in latino e greco, avevo la professoressa Andretta. Nelle sue materie andavo bene, anche se una volta mi diede un 3-meno-meno in un compito di greco che ancora ricordo. Per il “meno meno”: davvero sublime. E come dimenticarsi il compianto professor Gianmarco Alberti, geniale nel far firmare i compiti in classe con pseudonimi. Un giorno mi presentai come  “L’Anticristo”!  Al liceo, invece, ebbi un grande insegnante di storia e filosofia: il professor Cazzola. Forse devo anche a lui il mio tabagismo, anche se non capivo il suo amore per Hegel e contemporaneamente per Nietzsche. Lo capii tanti anni dopo.
Una cosa bella e una brutta che ricorda del Pigafetta?
Di bello c’era la possibilità di stare con coetanei con cui poter parlare anche di cose un po’ più elevate che non quelle amabilmente stupide o scurrili con cui ci si diverte a 15-20 anni (ma anche dopo, sia chiaro, rimangono fondamentali). Di brutto, personalmente, mi sentivo stretto fra due compagini: i “secchioni”(e io, quanto a voti nelle materie principali, lo ero, ma mi disgustava il loro perfezionismo e soprattutto perbenismo) e i più o meno finti “alternativi”, con cui invece condividevo un certo modo di atteggiarmi e vestirmi (ma non mi piaceva la loro spocchia da nostalgici del ’68, un mito che non ho mai avuto perché troppo retorico e sostanzialmente falso).
Lei è giornalista. Chi le ha trasmesso questa passione, e quando?
Semplicemente, professionalmente so fare solo una cosa: scrivere. Fare il giornalista per me è una scelta quasi obbligata. Ho cominciato pressappoco quando mi sono laureato, nel bel settimanale “Vicenza Abc”. Se avete voglia, leggetevi il divertentissimo ritrattino che di me ha fatto il mio direttore di allora, Matteo Rinaldi, sul suo blog: http://www.matteorinaldi.com/2009/02/un-cronista-senza-paura-e-senza-speranze/ (p.s.: effettivamente quella foto è tremenda, mentre invece contesto di essere di destra: non lo sono mai stato. Per me destra e sinistra sono al massimo indicazioni stradali, non più categorie concettualmente valide per interpretare il presente).
Un suo mito giornalistico?
Ne ho due. Uno, che è il mito di tutta la categoria (o almeno di buona parte), è Indro Montanelli: per lo spirito polemico e la superba scrittura. Il mio mito vivente, però, è Massimo Fini, che oggi scrive sul “Fatto Quotidiano”, esattamente per le stesse ragioni, ma anche per la sua linea di pensiero anticonformista.
Cosa le piace del suo lavoro?
Scherzando, ma non troppo, potrei rispondere: poter alzarsi ragionevolmente tardi al mattino. Seriamente: mi appassiona poter indagare sui reali motivi del perché accadono certi fatti piuttosto che altri, e soprattutto poter esprimere il senso critico, che è lo scopo dell’informazione, cioè la conoscenza.
“La Nuova Vicenza” è il giornale on-line che dirige. Quando e perché è nata l’idea di una rivista virtuale? In media, quanti sono gli utenti che visitano il sito o commentano gli articoli?
“La Nuova Vicenza” nasce il 7 dicembre 2011, principalmente come un settimanale on-line del venerdì, per poi via via trasformarsi in un quotidiano, compatibilmente con le nostre forze (il mercato non aiuta, in questo momento storico, e per giunta in una città chiusa e culturalmente ancora bigotta come Vicenza). L’idea è sorta come un’opportunità per il sottoscritto di creare una testata giovane, agile, libera – io ce la metto tutta, poi giudichino i lettori – cosa di cui ringrazio il mio editore Luca Bortolami. Dopo un solo anno, basandoci solo sui contenuti, le inchieste, la ormai nutrita squadra di opinionisti e rubricisti, siamo a 30 mila utenti unici al mese. Apriamo anche una serie di blog personali per chi voglia dire la propria, sempre che qualcosa da dire ce l’abbia. Qualche studente liceale o universitario che sappia usare la penna sarebbe il benvenuto…
Le è mai capitato di ricevere delle critiche per i suoi articoli molto chiari e diretti? Se sì, come le ha affrontate?
Grazie per il “molto chiari e diretti”, anzitutto. Critiche? A iosa. Lamentele, sfuriate, incazzature, ma per lo più mugugni e odii cordiali: a Vicenza si parla molto alle spalle. Li ho affrontati fregandomene, se provenienti da persone di poco conto, o cercando di capire le motivazioni, se era il caso di farlo. Una critica, comunque, è sempre meglio del silenzio.
Quali sono le più grandi responsabilità nella direzione di un giornale, in questo caso sul web? A questo riguardo, cosa ne pensa del recente arresto di Sallusti per reato d’opinione?
Le rogne maggiori? Sicuramente quando si trattano notizie giudiziariamente  sensibili o si espongono opinioni in maniera netta, che purtroppo spesso vengono fraintese come livori personali. Un giornalista, secondo me, ha il diritto ma anche il dovere di esporsi, specialmente se è il direttore. Assumendosene tutta la responsabilità e le conseguenze. Su Sallusti: trovo eccessiva la galera e umanamente sono solidale, ma quello di cui si è macchiato non è reato di opinione, ma di omesso controllo su un articolo che dichiarava il falso, il che non equivale ad un’opinione. Altrimenti tutti potremmo inventarci balle sul conto degli altri così, a buffo, impunemente.
Qual è il rapporto con “Il Giornale di Vicenza”, principale quotidiano della città? Che differenza c’è tra il Suo quotidiano e quello della città?
Per come la vedo io, il rapporto è complementare: il mio giornale web fa approfondimento, inchiesta e opinione, il quotidiano maggiore della città punta tutto sulla cronaca.
Qual è l’obiettivo del futuro per “La Nuova Vicenza”?
Diventare a livello locale la voce di quel mondo fluido, innovativo e senza tabù che è caratteristico della Rete.
Considerando “Il Pigazzetta”, quale consiglio darebbe ai ragazzi che vi scrivono?
Non ho abbastanza anni di esperienza alle spalle per sentirmi in grado di dispensare consigli, ma visto che me lo chiedi, direi questo: quando scrivete, cercate sempre di vedere l’altro lato della medaglia.
3 parole per descriversi?
Dura essere obbiettivi su se stessi. Ci provo: sincero, incazzoso, nottambulo.
Insomma: come avrete capito, Mannino è uno deciso, intraprendente e senza peli sulla lingua, che affronta la realtà con disinvoltura e con la curiositas dei latini. Ha anche una rock band e di regola frequenta gente che non ha niente a che fare col suo lavoro: “Non esiste week-end in cui non vada a un concerto. Mi serve per mantenere l’equilibrio ed evitare la noia.”

Silvia Marin
14 dicembre 2012

venerdì 30 novembre 2012

Barnard: uscire dalla stregoneria monetarista. No al “socialismo al limone”


Il cosiddetto “Antisistema” è solo uno specchio per le allodole che, confondendo la mira su questioni gravi ma non fondamentali,  non fa che lasciare indisturbati i veri poteri alti?
Sì purtroppo, perché non è assolutamente permesso all’interno dell’Antisistema di esprimere opinioni libere, o pericolose, e per pericolose intendo denunce che vadano a colpire i Poteri maggiori, quelli che stanno fuori dal cortiletto del potere nazionale, quelli cioè che veramente regolano le nostre vite. Ci faccia caso: in Italia nessuno nell’Antisistema più noto, fra Santoro, Travaglio, Vendola, o Grillo, va realmente a colpire al cuore ciò che io e i miei collaboratori abbiamo svelato. E infatti si scopre che l’Antisistema campeggia nei media nazionali e noi siamo soffocati nel silenzio.
Come De Benoist, anche lei opta per l’uscita dall’euro. Localizzare la moneta, quindi, è una possibilità per riappropriarsi della sovranità economica e non solo?
La proprietà della moneta è la prima condizione democratica in assoluto. Uno Stato privato del suo ‘portafoglio’ non ha più ragione d’esistere, perché non può più tutelare la vita economica dei suoi cittadini. E senza benessere non esistono più i diritti. Si diventa tutti ricattabili da chi invece detiene il potere del denaro. Oggi l’Italia è totalmente nelle mani dei mercati, e chi li ha eletti i mercati, noi? No.
Crede sia un caso la sequela di scandali politici scoperchiati negli ultimi mesi? Non sarà che, smantellando a destra e manca i vari partiti, si sta apparecchiando l’ascesa (già decisa) di Monti?
Non mi avventuro in dietrologie. Non so rispondere
A partire dal gruppo Bilderberg, passando per l’Organizzazione Mondiale del Commercio, fino alle Think Tank, senza parlare delle lobbies ebraiche, quali sono gli strumenti effettivi per rovesciare tali egemonie?
In teoria sarebbero quelli dell’informazione dei cittadini, e dell’azione di questi per rivendicare trasparenza e regole che tutelino le maggioranze e non le elite. Ma io non vedo più nella cittadinanza alcuna capacità di reazione. Ciò che fu fatto dalla fine dell’800 al 1960 è divenuto impossibile oggi, e nel mio saggio Il Più Grande Crimine 2011 ho spiegato come ciò è stato causato, proprio dalle elite di cui si parla, che compresero che la reattività del popolo andava spenta del tutto con un sistema sociale ad hoc. Il nostro.
Com’è possibile un riequilibrio tra l’economia virtuale ed economia reale, che relativizzi il sistema usuraio a cui siamo sottoposti?
Noi proponiamo un impianto economico che ha almeno 100 anni di storia dell’economia alle spalle, quindi autorevolissimo, e che serve proprio a questo. Non posso riscrivere tutta la teoria qui, consiglio ai vostri lettori di leggerne la migliore sintesi oggi disponibile scaricando il documento “PROGRAMMA DI SALVEZZA ECONOMICA PER IL PAESE” qui www.paolobarnard.info. Il succo sta comunque nel riportare la gestione della moneta nelle mani del governo sovrano e nell’interesse del 99% di noi.
Quali politiche alternative di occupazione attuerebbe?
Il Programma di Lavoro Garantito descritto nel documento di cui sopra. Si ottiene la piena occupazione nazionale, un aumento del PIL notevole, si abbatte l’inflazione, si aiuta anche il settore privato della aziende.
Lei parla di Piena Occupazione; secondo i modelli enunciati da Fisher e Phillips, ci ritroviamo davanti a un trade-off tra inflazione e disoccupazione, per cui un livello di disoccupazione pari a zero porterebbe ad un alto livello di inflazione. Come sopperire a questo inconveniente?
Lei deve comprendere che il lavoro di Fisher e Phillips nasce da una filosofia economica a senso unico che non ha mai accettato di guardare oltre le poche regole del monetarismo. Questi studiosi non hanno mai voluto studiare il funzionamento della moneta moderna dal 1971 in poi, né accettano l’evidenza dei fatti. Vivono nei loro teoremi e li difendono contro la logica stessa. Non posso qui disquisire di teoria complessa, ma ad esempio non si capisce perché essi non vogliano includere nei loro schemi l’enorme aumento di produzione di beni reali che la piena occupazione comporta, e che pareggia la massa monetaria evitando inflazione.
Inoltre, la Piena Occupazione potrebbe avere conseguenze quali la stagflazione o una rigidità eccessiva del sistema.
Non ha senso. Come fanno a dirlo? Su cosa si basano queste predizioni? Al contrario, noi sappiamo cosa ha comportato la (quasi) piena occupazione nei pochi esempi storici che abbiamo (Roosevelt o Clinton), e ha comportato solo benessere democratico, almeno fino a che altri elementi esterni (es. speculazione finanziaria) non sono intervenuti a rovinare tutto. Ripeto: i monetaristi vivono nei loro teoremi funzionali alle elite e si rifiutano di vedere la realtà.
Quali sarebbero le modifiche da apportare nel nostro sistema pubblico, fatto per lo più da piccole imprese, per stare al passo con la macroeconomia?
Una spesa a deficit del governo sufficiente a permettere la piena occupazione, la piena produzione, tasse basse sul lavoro e l’eliminazione totale dell’IVA. Questo comporta una economia domestica fortissima, investimenti, e una ottima macroeconomia. Poi certo, ci vorrebbe onestà negli amministratori pubblici, cosa che in Italia…
Di Barack Obama, appena rieletto, lei ha dichiarato che è ancora peggio del peggio, cioè di Bush, poiché con lui, attuandosi il cosiddetto “socialismo al limone”, non c’è più una reale differenza tra governo e lobbies.
Vede, il problema del trionfo dei finti progressisti come Obama è che ingannano l’unica fetta della popolazione che sarebbe potenzialmente attiva, che viene convinta che ‘il buono’ abbia vinto le elezioni. Ma poi il ‘buono’ aumenta le spese militari, dà trilioni di dollari a Wall Street, dà mano libera alla CIA per assassinare gente in giro per il mondo, si accorda con l’opposizione per fare finte riforme della sanità, accetta la follia della guerra al deficit, si schiera con Israele, ecc. Cioè tutto il programma di destra con tutta la sinistra addormentata. E’ quello che è successo in Italia con il centro-sinistra, che è stato ferocemente di destra ma la sinistra dei cittadini era tutta agitata contro Berlusconi e non si è mai accorta di nulla.
Crede sia davvero possibile una riforma morale e culturale in un Paese come il nostro, in cui la gente non arriva a fare la spesa a fine mese, ma in compenso “gode” del tablet?
No. Io lavoro e lotto per un principio, non per gli italiani. 

Fiorenza Licitra
26 novembre 2012

lunedì 15 ottobre 2012

Ricordo di Volpi, vicentino non conforme

La Basilica Palladiana rimessa a nuovo è uno splendore, ed è stato un dovere giustamente adempiuto dal sindaco Variati e dal suo predecessore Hullweck l’averla restituita in tutta la sua ieratica monumentalità ai vicentini e al mondo. Sulla mostra targata Goldin abbiamo aperto una discussione libera e franca su questo giornale online, prendendoci la briga di sentire l’opinione di esperti del calibro di Lionello Puppi, la massima autorità riconosciuta su Palladio. E dopo quelle di Dato e Floreani, altre ne seguiranno, pro o contro non importa – l’importante è non farsi sommergere da certa untuosa retorica, che col suo unanimismo danneggia la rinascita del simbolo di Vicenza. Pur contenti per la sua rinnovata magnificenza, non ci uniamo al coro dei bollettini promozionali.
Ma in occasione di questa festa della città, vorremmo tenerci alla larga dalle polemiche politiche, che pure danno da pensare sul livello di scontro fra le fazioni (gravissimo e grottesco l’Aventino della giunta che diserta un dibattito in consiglio, a prescindere dal ridicolo manifesto del Pdl sull’omicidio in Campo Marzo: è questo il rispetto delle istituzioni tanto sacro al centrosinistra? Poletto bacchetta timido, Peroni come al solito sceglie di non disturbare, e registriamo che la Lega, col tosiano Rigon sul Corveneto di ieri, dà prova della sua doroteizzazione scandalizzandosi per la «provocazione e le reazioni troppo forti»: che pena). Oggi, sulla scia di un “Quaderno” dell’Accademia Olimpica presentato in questi giorni alla sua memoria, voglio ricordare un vero uomo di cultura: Franco Volpi.
Morì il 14 aprile di quattro anni fa per un casuale incidente stradale mentre andava in bici. Una morte senza senso – ammesso che ne esista una che lo abbia. Quella mancanza di significato che Volpi approfondì in un’opera per me formativa, un libro che lo aveva consacrato come il principale divulgatore italiano della corrente filosofica di cui tutti noi Occidentali siamo involontari discepoli: “Il nichilismo” (Laterza, 1999). Lo apriva così: «L’uomo contemporaneo versa in una situazione di incertezza e precarietà. La sua condizione è simile a quella di un viandante che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille lastroni» (pag. 3). L’immagine del viandante dal passo incerto, ripresa da Nietzsche teorico e profeta nichilista, non aveva per Volpi un’accezione negativa, tutt’altro. Scriveva in chiusa: «Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero… che ci rende capaci di navigare a vista» (pag. 117). Di qui, nell’ultimo articolo su Repubblica, la sua difesa del nichilismo nicciano dall’accusa di “relativismo morale” fatta da Ratzinger. A tu per tu niente meno con il Papa, anzi contro il Papa. Dal punto di vista strettamente teoretico, il professore vicentino di filosofia ebbe il merito di dare la valenza più realistica al nichilismo come continuazione e compimento dell’illuminismo indagatore e iconoclasta (sempre Nietzsche: «l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido… Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli…», pag. 4). Solo che a Volpi, dotto poliglotta e cosmopolita, la funzione svelatrice, scettica e, secondo lui, amabilmente distaccata della “filosofia del martello” seguitava ad andar bene come pars destruens illuminata e razionalistica – come se Nietzsche fosse Voltaire. Aveva una visione, diciamo, idilliaca e storicamente un po’ superata. Illuminista, appunto.
Come scrissi nel 2009, resterò sempre col rimorso di non aver sfruttato la disponibilità che egli mi aveva dato due anni prima, dopo avermi rilasciato la sua ultima intervista ad un giornale locale. «Sa, purtroppo dopo il liceo ho dovuto abbandonare la filosofia, ma è un campo che mi piacerebbe sempre coltivare», gli confessai. E lui, il docente super impegnato e di fama mondiale, il conferenziere e visiting professor, che ora era a casa sua, una settimana prima era stato in Germania, quella dopo volava in Sudamerica, e nel frattempo doveva preparare un articolo e correggere non so più quali bozze, mi rispose con naturalezza: «Ma se vuole ogni tanto potremmo parlarne insieme, mi chiami». Il pigafettino Volpi si sentiva poco o punto vicentino. Me lo rivelò senza perifrasi, con pratica sincerità, proprio quel giorno: «La mia dimensione è un’altra, vivo qui per una bieca ragione di comodità, trasferirmi in una grande città come Milano o Roma costerebbe troppo». Una cittadina, quella che gli diede i natali, poco generosa con lui: «Tranne sporadici eventi come la commemorazione di quest’anno di Faggin, mio insegnante di liceo a cui devo l’amore per la filosofia, qui molte altre occasioni per mettere a frutto le mie competenze non ne ho avute». Con l’unica eccezione, come poi aggiunse, dell’associazione filosofica Dora Marcus, con Paolo Vidali e Giuseppe Barbieri, risalente ai lontani anni ’80. Troppo angusto, lo stagno locale: «Se dovessi andarmene, farei come Orfeo: non mi volterei indietro più di una volta».
Non amava i suoi concittadini: «La città vive ancora in una certa curialità di facciata che non vela più un clima godereccio miserevole», sentenziò. In quelle due ore in cui si fece domandare della sua vita e del suo rapporto con Vicenza, prendeva continuamente in mano, orgoglioso ed entusiasta, il suo ultimo nato, “In margine ad un testo implicito”, l’edizione per Adelphi del misconosciuto aforista Gómez Dávila, un profondissimo nichilista che guariva il suo nichilismo con la fede cristiana cattolica. La tipica ipocrisia berica di matrice clericale: questo costringeva Volpi a tenersi in disparte. «Dávila afferma che la Chiesa a forza di aprire le braccia al mondo ha finito con l’aprire anche le gambe. Ecco, al cattolicesimo elettorale che strizza l’occhio alle moltitudini, preferisco la conversione solitaria. Anche se ormai non siamo più la sacrestia ma la lap dance d’Italia». Un vicentino solitario fra i vicentini, il sensibile e acuto Volpi. Ci piace ricordarlo anche e soprattutto per questo.
Alessio Mannino
www.nuovavicenza.it 7 ottobre 2012

martedì 25 settembre 2012

Sì al mercato, no al capitalismo. Parola di bocconiani



Udite udite: dalla Bocconi escono cervelli critici, non soltanto dogmaticamente liberal-liberisti come l’esimio Mario Monti. Insegnano storia economica nella famosa università milanese, i professori Massimo Amato e Luca Fantacci, autori di un consigliatissimo libretto pubblicato dalla Donzelli nel luglio scorso, “Come salvare il mercato dal capitalismo”. Il titolo può mettere in sospetto il lettore anti-sistema: non è che questi due, giocando sui concetti di mercato e capitalismo, in realtà hanno l’intenzione di salvare lo status quo che nei fatti vede i due termini come sinonimi?
Economia liquida
Il fondamento su cui i due bocconiani costruiscono la loro analisi consiste, al contrario, nel disconoscere la sinonimia abituale. Il mercato è l’economia dello scambio misurato attraverso la moneta, il capitalismo è il mercato dominato dalla finanza. Il primo è da salvaguardare, il secondo da combattere e abolire perché rende lo scambio succube della mercificazione del credito. 
Leggiamo: «Economia di mercato e capitalismo … a ben vedere, sono anzi incompatibili. Il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo: il mercato della moneta e del credito». Di troppo, nel doppio senso negativo che riveste la liquidità o finanziarizzazione: «da una parte, è il carattere del credito, nella misura in cui può essere comprato e venduto su un mercato, il mercato finanziario, come quel luogo dove si investe senza responsabilità e tutti ci guadagnano. D’altra parte la liquidità è anche il carattere eminente della moneta capitalistica, nella misura in cui è una moneta che può essere trattenuta indefinitamente, come forma suprema della ricchezza, come rifugio sicuro in tempi di incertezza, quando non ci si può più fidare di nessuno». In altre parole, il male originario del sistema capitalistico sarebbe nel suo fondarsi sull’illusione del profitto illimitato e abbordabile da tutti, resa possibile da una moneta basata sul debito. 
Il problema a monte, insomma, è l’economia liquida, è la liquidità definita come «il principio per cui i debiti non sono fatti per essere pagati ma per essere comprati e venduti su quel mercato sui generis che è il mercato finanziario. La liquidità trasforma il rischio inerente a ogni atto di credito… in un rischio ben differente:  il rischio che i titoli che rappresentano i debiti non trovino più acquirenti». Che è esattamente la tipica situazione di insolvenza riscontrata nella crisi mondiale di questi anni. 
Creditore fa rima con debitore
Ma, secondo Amato e Fantacci, neppure la finanza è un male di per sé. A patto di intenderla come si dovrebbe intendere l’intera economia: come una relazione di cooperazione, e non di concorrenza. Una cooperazione non certo moralisticamente compassionevole, sia chiaro: il creditore ha interesse che il debitore possa pagare il suo debito, e il debitore ha interesse a pagarlo per non diventarne schiavo. 
La liquidità o finanziarizzazione opera una scissione, perché rende la relazione una merce, un pezzo di carta rivendibile, e rivendibile in tempi sempre più brevi e veloci (la famosa speculazione). D’altronde questo fa la finanza sanguisuga: compra, vende e rivende, impacchettati e spacchettati, i debiti. E infatti la famigerata crisi greca è scoppiata quando i titoli di debito ellenici hanno smesso di essere vendibili, perché pagabili non lo erano stati mai.
Aver mercificato il rapporto creditore-debitore «gli toglie la sua caratteristica di solidarietà intrinseca facendone un titolo negoziabile, toglie alla moneta il suo carattere di misura comune per renderlo un fattore di accumulazione, toglie al lavoro la dignità che si matura nella competenza per consegnarlo alla precarietà». È la lezione del caro vecchio Marx che torna a galla dall’oblio. Peccato che gli ultimi marxisti dei nostri tempi non tocchino mai, paurosi di scottarsi, il tema monetario e creditizio. Invece chi si oppone al lavoro-merce non può non opporsi al credito-merce. Cosa che non avviene perché a sinistra si è dimenticato pure Keynes, che nel capitolo 12 della Teoria generale condanna senza mezzi termini la liquidità come un «feticcio anti-sociale». E allora bisogna chiamare le cose con il loro nome, e qui sta la parte concettualmente più coraggiosa, benché non certo rivoluzionaria, del libro in esame: «l’idea che la moneta sia ricchezza e che il fatto stesso di prestarla meriti di essere premiato è la radice di un male endemico, sociale e insieme umano. Chiamatela come vi pare. Fino a un paio di secoli fa si chiamava usura. Poi gli economisti classici l’hanno chiamata rendita. E l’hanno aspramente criticata. Oggi si chiama tasso d’interesse». 
Usura e cooperazione
La schiavitù dell’interesse è, come avrebbe detto Aristotele, “odiosa” perché costituisce un prelievo forzoso alla fonte sui redditi, perché vampirizza il lavoro e l’impresa togliendo risorse per una sterile accumulazione puramente monetaria (la deflazione, in cui le banche sguazzano facendosi in pratica regalare miliardi dalla Bce senza girarli alle aziende), perché, con la foglia di fico della “finanza democratica” (i fondi gestiti dalle banche), fa credere al comune risparmiatore di poter guadagnare senza lavorare. E così si finisce col far lavorare senza guadagnare, come dimostra la proletarizzazione del ceto medio diffuso. 
Come se ne esce? Politicamente1, è chiaro. Ma non certo limitandosi a indignarsi, come è in voga dire oggi. Innanzitutto bisogna fare chiarezza teorica su quali sono gli obbiettivi di un’altra finanza: «La finanza deve assolvere due compiti essenziali: finanziare gli scambi e finanziare gli investimenti. Nessuno dei due compiti richiede il mercato del credito o il prestito a interesse. Il finanziamento degli scambi può avvenire attraverso sistemi di compensazione (improntati non alla crescita indefinita delle operazioni finanziarie, ma all’equilibrio degli scambi). Il finanziamento degli investimenti e dell’innovazione può avvenire attraverso forme di compartecipazione alle perdite e ai profitti (all’interno dei quali la crescita non è obbligata, ma semplicemente possibile)». 
Gli autori chiudono il libro, infatti, con una proposta innovativa: l’introduzione di un doppio corso, con un Euro a vocazione globale – perché piaccia o no la globalizzazione bisogna fronteggiarla – e una moneta di conto complementare, che rifletta i tessuti sociali ed economici locali. E si tratta di un’idea nient’affatto peregrina, dato che esistono numerosi esempi, antichi e attuali, di una felice assenza di mercati finanziari col prestito a interesse: dalle fiere dei cambi rinascimentali alle banche mutualistiche e cooperative, dalla finanza islamica al venture capital, dagli esperimenti di denaro a scadenza durante la Grande Depressione ad alcuni esperimenti di monete locali.
Essere ragionevoli è rivoluzionario
In concreto, la nuova divisa complementare sarebbe connessa all’istituzione di una camera di compensazione locale, una banca pubblica per piccole e medie imprese che abbiano almeno una parte di clienti e fornitori sul territorio. Ma pubblica non perché usa capitali pubblici ma perché pubblica è la logica che adotta e pubblico è il servizio che rende. Una specie di credito cooperativo, in quanto i partecipanti si concedono il credito mutualmente. «Ciò che caratterizza lo spirito della cooperazione non è il fatto che tutti sempre ‘si vinca’, ma piuttosto il fatto che, si vinca o si perda, il vantaggio e il peso sono sopportati insieme e secondo proporzione.» 
Banale e un po’ ingenuo riformismo? Mica tanto. Mettere in discussione l’idolatria dei “mercati” signori e padroni è già un atto rivoluzionario. Così come mettere all’indice il ricatto politico ed economico delle banche private come frutto di un vizio strutturale che ha il preciso nome di usura. Solo, non si può soltanto abbaiare alla luna2. Occorre sforzarsi di proporre alternative ragionevoli, imperfette e perfettibili come tutte le proposte. Ma è la direzione che conta. E a me pare quella giusta. 
Alessio Mannino 

Note

1.       L’ideologia dominante, quella liberal-capitalistica, l’unica rimasta sul terreno dopo la sconfitta del suo alter ego social-comunista, finora ha impedito di rompere il muro d’omertà sulla dittatura finanziaria: “la finanza ha potuto usurpare lo spazio della politica e asservire l’economia reale solo perché l’ideologia del mercato ha occupato lo spazio della finanza. Frutto di questa ideologia che nessuno, da trent’anni, ha saputo contrastare adeguatamente, il mercato finanziario in quanto tale è un problema. È un problema economico, politico e, infine, umano. È un problema perché ha preteso di fare mercato di una relazione sociale e umana fondamentale, quella fra debitore e creditore. Se solo la poniamo così, l’assurdità del proposito emerge da sola. Occorre dunque una riforma della finanza che le tolga lo spazio usurpato e la riannodi al compito mancato. Togliere alla finanza la forma del mercato, significa rimetterla al servizio dell’economia di mercato. E questo è un compito politico” (Amato-Fantacci, op. cit, pag. 6). 
2.       Anche perché siamo tutti complici, volontariamente o involontariamente, della mistificazione finanziaria: “il colpevole non è «qualcun altro», giacché i mercati finanziari siamo tutti noi, nella misura in cui condividiamo, socialmente e individualmente, i presupposti antisociali del loro funzionamento. In questo odioso regime dei creditori siamo tutti implicati. Innanzitutto, perché siamo tutti creditori: basta avere un conto in banca per contribuire a creare quella pressione sul debitore che può diventare intollerabile. Ma soprattutto, e più profondamente, perché anche chi non investe in borsa, talvolta perfino chi protesta contro lo strapotere di Wall Street, difficilmente mette in discussione ciò su cui i mercati finanziari si fondano: il dogma della liquidità. Ossia l’idea, apparentemente naturale, secondo cui il denaro contante (la liquidità, appunto) è la forma più sicura di risparmio e, di conseguenza, si può accettare di privarsene solo in cambio di un investimento che sia ugualmente liquido o che frutti un interesse adeguato. Detto altrimenti, questo è il credo generalizzato a cui tutti implicitamente ci atteniamo: la moneta è il sommo bene, e deve generare interesse nella misura in cui è data a credito. Chi accumula denaro, si aspetta che conservi il suo valore. Chi lo cede in prestito, si aspetta di riceverlo aumentato. Lo dà per scontato. E in effetti è scontato, letteralmente, in termini contabili. Così opera il dogma trinitario della liquidità: moneta-credito-interesse, uni e trini, inseparabili” (Amato-Fantacci, op. cit, pag. 10).


Pubblicato sulla Voce del Ribelle www.ilribelle.com  il 17 settembre 2012 col titolo “Capitalismo, il virus che intossica i mercati”.