Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 16 gennaio 2012

Io sto con chi resiste

C’è chi mi chiede: ma tu, da che parte stai? Ho scritto e riscritto ad nauseam che destra e sinistra sono categorie superate dalla storia, tenute in vita dall’inerzia politico-psicologica di massa che fa comodo ad un sistema di potere oligarchico neutro, post-ideologico, mondializzato e senz’anima, una megamacchina tecnocratica e finanziaria che dei vecchi schemi progressisti/conservatori se ne infischia e ingloba tutto in nome dell’unico dio, lo Sviluppo irragionevole e infinito. L’Ottocento è morto, il Novecento non si sente bene ma qui ci si combatte ancora fra fascisti e antifascisti, fra comunisti e anticomunisti come se il tempo si fosse fermato. Il teatro dei fantasmi non mi interessa, e un giudizio realistico e scevro di pregiudizi non può che indurre a schierarsi caso per caso. Secondo i propri valori di fondo, certo, che per me si riassumono nella prevalenza dei valori ideali su quelli materiali, economici, utilitaristici del denaro virtuale, motore della globalizzazione. Chi resiste a questo Leviatano tecnocratico e anonimo mi diventa automaticamente simpatico.
Pertanto, fatti tutti i distinguo che occorrerebbero se analizzate una ad una, in ciascuna situazione “calda” del mondo farei certe scelte e non altre. Negli Stati Uniti d’America, baricentro del pianeta globale, starei con Ron Paul, repubblicano, libertario, avversario implacabile dello strapotere bancario, isolazionista. In Venezuela starei con Hugo Chavez e il suo socialismo bolivariano. In Perù con Evo Morales e il suo socialismo indio. In Argentina con Christina Kirchner e la sua autarchia economica. In Francia appoggerei  Arnaud Montebourg, della sinistra del Psf, uno dei pochi politici europei a porre la questione della mondializzazione come problema a monte di tutti i problemi. In Ungheria, ingoiando il rospo di certi eccessi di rivalsa contro gli eredi dell’epoca comunista, sarei col governo nazionalista di Viktor Orban, che vuole liberare il suo paese dalle mire strangolatrici della Bce e del Fmi. A Cuba, sia pur mal sopportando, da guevariano quale sono, la gerontocrazia fidelista, affiancherei chi vuole mantenere un’identità alternativa al capitalismo, anche se finalmente dando libertà di iniziativa al singolo come ha cominciato a fare Raul. In Afghanistan mi batterei coi partigiani Talebani del Mullah Omar. In Palestina mi iscriverei ad Hamas, in Egitto probabilmente ai Fratelli Musulmani. In Iran, non so se con Ahmadinejad o con Kamenei, ma di sicuro lotterei per il mio orgoglio persiano prima ancora che islamico. In Gran Bretagna starei con Nigel Farage e il suo tradizionale anti-europeismo british. In Irlanda del Nord sarei indipendentista con l’Ira,  in Cina tenterei, coi mezzi che ho, di resistere al regime (Tibet libero!).
E in Italia? In Italia non c’è una forza politica che concentra in sé abbastanza ragioni da convincermi a sostenerla, sempre, beninteso, con senso critico e libertà intellettuale. Ce ne vorrebbe una che assommasse le due grandi questioni aperte specifiche della società italiana: la questione locale (autonomie locali, un vero federalismo) e la questione sociale (che è comune a tutti i paesi occidentali e si tradurrebbe nel porre fine alla dittatura della finanza, secondo un ideale ecologico e comunitario). (a.m.)

giovedì 5 gennaio 2012

La Costituzione? E' anti-democratica

Nel suo discorsetto banale e vacuo di Capodanno, il presidente Napolitano non ha mancato una difesa d’ufficio dei partiti, tanto più patetica quando più queste idrovore sono impopolari presso gli italiani (la fiducia è al minimo storico: 5%). Ma tant’è: i partiti sono costituzionalmente tutelati, benché non nella prima parte, ahinoi considerata inviolabile in eterno, ma nella seconda, suscettibile di cambiamenti teoricamente più facili. Comunque, carta o no, la forma-partito marcisce nel discredito che si merita, e questo Capo dello Stato li rappresenta degnamente, essendone un sottoprodotto e neanche dei migliori.
Interessante notare, tuttavia, come nella stessa stampa che magnifica il Quirinale partitocratico e inveisce contro l’“antipolitica” si leggano le più accanite campagne contro gli abusi dei partiti e certi scampoli di presunta iconoclastìa rispetto a mafie di segreterie e mandarini d’apparato. Parliamo naturalmente del Corrierone, che non si smentisce mai. Giù botte al parlamento e al parassitismo della casta col duo Stella-Rizzo, che sinceramente ha stufato (si accorgeranno mai, questi due segugi di buvette, che a guidare le sorti del paese, dell’Europa e del mondo è la finanza?). E poi, vai col tango di opinioni vergate da editorialisti anche bravi, acuti e tutto sommato onesti – dal loro punto di vista blindato e allineato, s’intende – che ci offrono riflessioni alate giusto per dare al lettore il piacere momentaneo di un volo pindarico. Che resta lì, sospeso nel campo della fantasia, perché non sia mai criticare sul serio la balla della “democrazia”.
Ieri è stato il turno di Michele Ainis (uno dei pochi meritevoli di essere letti, se comparato a quei bei tomi di Ostellino, Panebianco e Galli della Loggia). Il politologo prova a fare proposte che lui stesso definisce “utopistiche”: «Se l'utopia è il motore della storia, adesso ne abbiamo più che mai bisogno per continuare la nostra storia collettiva». Partendo dalla constatazione, che nessuno osa negare, che la politica in Italia è vista come un affare di élites autoreferenziali, Ainis spara tre cartucce: soglia di due mandati parlamentari (è l’identica richiesta di Grillo e del suo Vaffa-day del 2007); il recall americano-canadese, cioè la possibilità di revoca anticipata dell’eletto; la demarchia di discendenza ateniese, cioè una Camera di cittadini scelti a sorteggio.
A parte che si tratta davvero di utopie, dato che alla corporazione parlamentare non è riuscito neppure di tagliarsi lo stipendio fin da subito, alla faccia dei sacrifici imposti a tutti gli altri italiani, il senso della provocazione è appunto quella di essere una provocazione, un futile baloccarsi da intellettuali. Non si tratta di correggere la meccanica della macchina, pensando perfino di riesumare la saggezza della più antica, e quella sì reale, democrazia della storia. Basta con il fumo cervellotico, le trovate d’importazione, le riformine stitiche. Non è estraendo a sorte o limitando l’ingordigia dei politicanti che si cambierà alcunché di significativo. La democrazia delegata è la maschera del potere assoluto della bancocrazia, dell’economia globalizzata dei mercati: se non si parte da qui, si produce solo aria fritta e inchiostro inutile. E non si evochi, per piacere, l’Atene di Clistene, Solone e Pericle, che inventò la demos-kratìa proprio in opposizione alla oligarchia, il predominio sfruttatore dei pochi ricchi sul popolo, inteso come i molti meno abbienti. La nostra è un’oligarchia, e andrebbe rovesciata come fecero i fieri Ateniesi: cominciando dalle regole fondamentali, dalla base. Cioè dalla Costituzione, che nel nostro caso, al contrario dei suoi fanatici difensori, democratica non è: priva del diritto di voto su materie fiscali e trattati internazionali, esattamente le due leve essenziali perché uno Stato sia libero e sovrano.
Alessio Mannino
www.ilribelle.com 4 gennaio 2012