Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 31 ottobre 2011

Dal Lago, un (quasi) addio


Stando a quanto annunciato in un’intervista di ieri, quest’oggi l’onorevole Manuela Dal Lago dovrebbe aver imbucato la lettera di dimissioni da consigliere comunale della Lega Nord del Comune di Vicenza. Adduce una motivazione strettamente pratica, la scaltra Manuelona: «mi è praticamente impossibile essere presente in Consiglio comunale: le sedute consiliari sono quasi sempre fissate a metà settimana, quando io sono a Roma, alla Camera. Avevo intenzione di dimettermi già da tempo...». Tutto vero. Come è vero che lei aveva chiesto al sindaco Achille Variati di far spostare le sedute al lunedì o al venerdì così da permetterle di parteciparvi, ma Achille, spietato, le ha risposto picche. Con un governo traballante, il partito fa quadrato e la vuole a Montecitorio, sempre pronta a schiacciare il tasto. La Dal Lago, perciò, deve lasciare la seggiola di capogruppo del Carroccio in aula consiliare. La sostituirà Paola Bastianello, ex presidente della circoscrizione 2.
Ma l’uscita di scena di un personaggio di tal peso dalla ribalta politica vicentina non può non nascondere un risvolto dietro le quinte. La Dal Lago non molla soltanto perché precettata da Bossi&Co. E’ da un po’ che ha abbandonato soverchie illusioni di candidarsi a sindaco secondo il suo antico progetto che prevedeva la corsa a capo della Lega e di una lista civica tutta sua, aperta ad amici e sodali (come la premiata coppia Alifuoco e Giulianati, che ha bellamente scaricato). Di fronte ha Variati, avversario per nulla facile da battere, coadiuvato da Lia Sartori, che è pappa e ciccia con Achille. Lo scrivevo su questo blog mesi fa e lo confermo: il patto fra gli ex sfidanti del 2008 è ben saldo e opera nell’ombra, in barba agli schieramenti e ai partiti. Nel secondo mandato Hullweck, in consiglio c’era la maggioranza trasversale Bressanello-Dal Lago-Alifuoco; ora, in più comode e riservate riunioni di palazzo, c’è l’alleanza trasversale Variati-Sartori (con tutta probabilità la vedremo all’opera quando si entrerà nel concreto dei piani urbanistici).
A quanto pare, inoltre, Manuela ha rotto anche col costruttore Gaetano Ingui, sua storica sponda imprenditoriale, e col club degli sconfitti di Confindustria. Se aggiungiamo la situazione di instabilità che tormenta la Lega in questo periodo, in cui lei, da maroniana che era, si è posizionata contro Tosi e a favore di Gobbo agitando il frustino dell’epuratrice bossiana, possiamo arguire che la Dal Lago ha i suoi buoni motivi per guardare a Roma e ad eventuali incarichi nazionali, piuttosto che impantanarsi nella palude vicentina. Nella quale, però, potrebbe comunque rientrare: facendo la sdegnosa, si è messa nella condizione di poter poi, se la Lega e il centrodestra non dovessero trovare un accordo sul candidato sindaco, accettare di correre dettando lei le condizioni. Astuta come sempre, non c’è che dire. (a.m.)

domenica 30 ottobre 2011

Viviamo sotto usura


Il filosofo francese De Benoist, che ha rotto i ponti con la tradizione di destra perchè convinto, anche lui, che certe categorie siano inesorabilmente superate e conservatrici, spiega in questo excursus storico l'origine del vero nome del regime di cui siamo sudditi: non democrazia, ma USUROCRAZIA. (a.m.)

Morte a credito
Ezra Pound, al canto XLV dei Cantos : «Con usura gli uomini non hanno case di pietra sana/blocchi lisci finemente tagliati fissati in modo che il fregio copra le loro superfici/con usura/ gli uomini non possono avere paradisi dipinti sui muri delle chiese […] Con usura il peccato è contro natura [with usura sin against nature]/ il pane è straccio vieto/arido come la carta/senza segale né farina di grano duro/con usura il tratto si appesantisce/non vi è che una falsa demarcazione/gli uomini non hanno più siti per le loro dimore/e lo scalpellino viene privato della pietra/il tessutaio del telaio/ I cadaveri banchettano/ al richiamo dell’usura [Corpses are set to banquet / at behest of usura] ».
Gli eccessi del prestito a interesse sono condannati a Roma, così come lo testimonia Catone secondo cui, se i ladri di oggetti sacri meritano una doppia pena, gli usurai ne meritano una quadrupla. Ancora più radicale è la condanna di Aristotele alla cremastica. Così scrive: «L’arte di acquisire ricchezza è di due specie: se la prima è nella sua forma mercantile, la seconda dipende dall’economia domestica; quest’ultima forma è necessaria e lodevole, mentre l’altra si affida alla scadenza e autorizza giuste critiche, poiché non ha nulla di naturale […]. A queste condizioni, ciò che si detesta con assoluta ragione, è la pratica del prestito a interesse in quanto il profitto che se ne ricava è frutto della moneta stessa e non risponde più al fine che ha presieduto alla sua creazione. Se la moneta è stata inventata in vista dello scambio, è invece l’interesse che moltiplica la quantità di moneta essa stessa […]. L’interesse è una moneta nata da una moneta. Di conseguenza, questo modo di guadagnare denaro è tra tutti, il più contrario alla natura» (La Politica).
La parola «interesse» designa il reddito del denaro (foenus o usura in latino, tókos in greco). Si riferisce al modo in cui il denaro «partorisce nuovi nati». Già nell’ alto medioevo, la chiesa sostiene la distinzione che aveva fatto il diritto romano per il prestito dei beni immobiliari: ci sono cose che si consumano con l’uso e altre che non si consumano affatto, e che vengono chiamate commodatum. Esigere un pagamento per il comodato è contrario al bene comune, poiché il denaro è un bene che non si consuma. Il prestito a interesse sarà condannato dal concilio di Nicea sulla base delle «Scritture» – nonostante la Bibbia non lo condanni con chiarezza! Nel XII secolo, la chiesa assume la condanna aristotelica della cremastica. Anche Tommaso d’Aquino condanna il prestito a interesse, con alcune riserve, adducendo il motivo che «il tempo appartiene solo a Dio». L’islam, ancora più severo, non concede neppure la possibilità della distinzione tra l’interesse e l’usura.
La pratica del prestito a interesse si è pertanto progressivamente diffusa, in relazione all’ascesa della classe borghese e all’espansione dei valori mercantili che sono stati lo strumento del suo potere. A partire dal XV secolo, le banche, le compagnie commerciali, e in seguito le manifatture, possono rimunerare i fondi presi a prestito, su deroga del re. Il giro di boa essenziale corrisponde all’avvento del protestantesimo, e più precisamente del calvinismo.
Calvino è il primo teologo ad accettare la pratica del prestito a interesse, che si diffonde così attraverso le reti bancarie. Con la Rivoluzione francese, il prestito a interesse diventa completamente libero, e nel frattempo fioriscono nuove banche in quantità, dotate di fondi considerevoli che provengono soprattutto dalla speculazione sui beni nazionali. Il capitalismo prende il volo.
All’origine, l’usura designa il semplice interesse, indipendentemente dal tasso applicato. Oggigiorno, chiamiamo «usura» l’interesse di un ammontare abusivo, attribuito a un prestito. Ma l’usura è anche il processo che permette di incatenare, colui che è beneficiario del prestito, con un debito che non riesce a rimborsare, e a impadronirsi dei beni che gli appartengono, ma che egli ha accettato di dare in garanzia del prestito. È proprio quello che succede oggi a livello planetario.
Il credito permette di consumare il futuro nel presente. Si basa sull’uso di una somma virtuale che viene attualizzata attribuendogli un prezzo: l’interesse. La generalizzazione del principio su cui si basa, fa perdere di vista il principio elementare secondo il quale è bene limitare le proprie spese al livello delle risorse, visto che non si può certo pensare di poter vivere perpetuamente al di sopra dei propri mezzi. L’ascesa del capitalismo finanziario ha favorito questa pratica: ci sono giornate in cui i mercati cambiano l’equivalente di dieci volte del PIL mondiale, e questo mostra a sufficienza la sconnessione con l’economia reale. Quando il sistema di credito diventa un pezzo centrale del dispositivo del Capitale, si rientra in un circolo vizioso, la fine del credito rischia di tradursi nel crollo generalizzato del sistema bancario. Brandendo la minaccia di un tale caos, le banche sono riuscite a farsi continuamente aiutare dagli Stati. La generalizzazione dell’accesso al credito, che implica il prestito a interesse, è stato uno degli strumenti privilegiati dell’espansione del capitalismo e della società dei consumi a partire dal dopoguerra. Indebitandosi massicciamente, le famiglie europee e americane hanno sicuramente contribuito, tra il 1948 e il 1973, alla prosperità dell’epoca del cosiddetto «trentennio glorioso della crescita». Le cose sono cambiate nel momento in cui il credito ipotecario ha preso il sopravvento sulle altre forme del credito. «Il meccanismo di ricorso a un’ipoteca come pegno reale dei prestiti rappresenta molto di più, ricorda Jean-Luc Gréau, di una agile tecnica che garantisce somme prestate, poiché capovolge il quadro logico di attribuzione, valutazione e di detenzione dei crediti accordati […]. Il rischio limitato cede il passo alla scommessa che si fa sulla facoltà che si avrà, in caso di fallimento del debitore, di mettere in gioco l’ipoteca e di coglierne il profitto per rivenderlo a delle condizioni favorevoli». Queste manipolazioni d’ipoteche trasformate in attivi finanziari, congiunte alle difficoltà di pagamento dei beneficiari del prestito, incapaci di rimborsare i loro debiti, hanno portato alla crisi dell’autunno del 2008. Oggi assistiamo alla ripetizione di un’analoga operazione che grava sugli Stati sovrani che ne fanno le spese, con la crisi del debito pubblico.
Stiamo assistendo al grande ritorno del sistema dell’usura. Quello che Keynes chiamava «il regime dei creditori» corrisponde alla definizione moderna dell’usura. I processi dell’usura li riscontriamo nelle modalità in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa sugli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi al titolo degli interessi di un debito di cui il principale costituisce una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Gli azionisti e i creditori sono gli Shylock della nostra epoca.
Ma l’indebitamento va di pari passo con la crescita materiale: né l’uno, né l’altra possono crescere all’infinito. « L’Europa compromessa con la finanza, scrive Frédéric Lordon, rischia di essere distrutta dalla finanza». Da tempo scriviamo: il sistema del denaro distruggerà se stesso.
Alain De Benoist
Arianna Editrice 29 ottobre 2011

sabato 29 ottobre 2011

Finanza tossica, è tutto come prima

E' sempre una piacevole sorpresa quando l'informazione mainstream, sia pur tra titoloni entusiasti ed editoriali propagandistici, ogni tanto fa saltar fuori qualche brandello di verità. Oggi un bell'articolo di Massimo Mucchetti, l'unico leggibile in quella pravda che è il Corriere della Sera, riporta il dato osceno della disuguaglianza economica figlia della globalizzazione. Si guarda bene dallo spingersi oltre, il neo-keynesiano Mucchetti, però è già qualcosa. Ieri, in un colonnino a pagina 2, sempre il Corrierone, fanaticamente allineato al pensiero unico filo-bancario, ha confessato in cosa consiste il fondo salva-stati europeo (ve lo ricopio qui sotto). In due parole: le devastanti conseguenze della crisi originata dalla finanza tossica sono curate con altra finanza tossica. E per di più con gli stessi identici sistemi. E noi poi ci tocca ascoltare i signori politici al soldo delle banche che si dicono preoccupati perchè la gente non ha più fiducia in questo modello di sviluppo. Ti credo: ci truffano ancora e sempre rifilandoci altre bolle finanziarie, rimandando in là nel tempo i debiti che sono destinati prima o poi a esplodere. Voi che continuare a crederci, alla fola del "mercato" e al teatrino destra-sinistra che le fa da copertura, il crac ve lo meritate. Ma noi, pochi anche se in crescita, che la storia dell'orso non ce la beviamo più, perchè dovremmo subirlo? Ditelo a chiunque: ci stanno fregando di nuovo, e se non cominciamo a dire "no" alla frode dell'euro, a questa Europa in mano ai banchieri e all'economia manipolata dalla speculazione, essere indignati non serve a un tubo. (a.m.)

Emissari ad Atene. I segreti del patto di Bruxelles
Il collasso a Wall Street nel 2008 ebbe due detonatori: i «Cdo» ( Collateralized debt obligation ), e i Cds ( Credit default swap ). I primi emettevano bond il cui valore era sostenuto da una massa di mutui immobiliari sottostanti: le famiglie indebitatesi per comprare casa «garantivano» che quei titoli sarebbero stati onorati. I Cds invece sono assicurazioni che una banca paga in caso di insolvenza su questo o quel bond. Queste sigle erano l' ultima frontiera dell' ingegneria finanziaria. Ora l' Europa le rispolvera per salvare se stessa. Il meccanismo del fondo salvataggi emerso dal vertice, senza evocarne i nomi, ricorda da vicino un Cds a cui si aggiunge un Cdo: tutto per mettere al sicuro l' Italia. Possibile? Uno strumento che promette di indennizzare il 20-25% delle perdite a un investitore in bond, come fa il fondo europeo Efsf, è in effetti un Cds. C' è poi la seconda parte del meccanismo, quella basata sul «veicolo» nel quale confluiscono anche gli investitori privati, oltre alla Cina o all' Arabia Saudita. Funziona così: in quel «veicolo» il 20% dei soldi viene messo dal fondo europeo e il restante 80% dai privati e dai fondi sovrani; quindi il «veicolo» compra titoli - diciamo - italiani e spagnoli sul mercato. Se Roma o Madrid fanno default, le prime perdite le subisce tutte il fondo europeo: il sistema è come un palazzo in cui l' Efsf sta al primo piano e sarebbe dunque il primo ad andare sott' acqua in caso di tsunami. Dunque gli investitori privati godono ancora una volta di una garanzia. Non solo: proprio come un Cdo, il «veicolo» a sua volta può vendere sul mercato bond sostenuti dal debito pubblico di Italia e Spagna, anche questi assicurabili al 20-25%. L' Europa antispeculazione e pro-Tobin Tax arriva a un livello di sofisticazione finanziaria da far impallidire Goldman Sachs, con la differenza che non lo spiega (neanche in caratteri minuscoli come si fa di solito in fondo ai documenti a Wall Street). E in America quando i debitori sottostanti a un Cdo sono affogati e tutto è saltato, lo Stato ha tamponato le perdite. In questo caso invece a tamponare non basterebbe più nessuno Stato: solo la Bce potrebbe farlo, anche se per ora non vi è autorizzata. Accanto a tanta tecno-finanza, il vertice europeo ha prodotto un' importante novità politica: ha trasformato la Grecia in un protettorato. Il governo di Atene perde le leve del potere. Funzionari di Bruxelles e delle capitali nazionali (anche di Berlino) si installeranno nei ministeri, nelle agenzie pubbliche, nella task force privatizzazioni a «monitorare sul terreno». Come Caschi blu dell' economia in uno Stato fallito. 
Federico Fubini
Il Corriere della Sera 28 ottobre 2011

venerdì 28 ottobre 2011

Tipi vicentini: Achille, Dario e Gianni

Alluvione vicentina? No, torinese. Càpita che per sapere cosa pensi davvero il sindaco della propria città occorra leggerne le dichiarazioni su giornali nazionali. Vuoi per la comprensibili remore dell’interessato a dire tutta la verità ai concittadini quando questa dovesse essere una verità amara da digerire, vuoi per la latitanza della stampa locale, che spesso non fa le domande giuste. Sul pericolo di una nuova inondazione ad un anno esatto da quella che colpì violentemente Vicenza, l’interrogativo da porre ad Achille Variati è semplice semplice: rischiamo o no un’altra alluvione? L’installazione delle sirene lo conferma indirettamente, e nessuno in città ha dubbi in proposito. Però, per esigenze di comunicazione, il sindaco evita accuratamente di ammetterlo pubblicamente e schiettamente. Ai vicentini. Lo ha detto ai lettori della Stampa, quotidiano di Torino sia pur tra i più importanti del Paese. «Di sicuro se piove come l’anno scorso, Vicenza e dintorni tornano sott’acqua»: chiaro, conciso, lapidario, così parlò Achille al cronista sabaudo. Mi pareva giusto farvelo sapere.
Casa Vianello. Gustosa la polemica sul Giornale di Vicenza fra l’ex senatore Giuliano Zoso, il presidente di Aim Paolo Colla e un altro ex democristiano, Alberto Zocca (padre del consigliere comunale Marco, del Pdl). Il primo, con un intervento di due settimane sul GdV, in sostanza poneva il problema della permanenza del tecnico Dario Vianello al vertice della multiservizi comunale, lo stesso Vianello che aveva condiviso le decisioni, definite “delinquenziali” dal centrosinistra variatiano, della controversa gestione targata centrodestra. E avanzava un’ipotesi ben precisa e nient’affatto peregrina, visti gli storici rapporti di vicinanza che legano Vianello a Variati: Colla sarebbe un traghettatore, è il buon Dario il presidente Aim in pectore per il 2013 se Achille dovesse essere rieletto alla guida del Comune. Colla gli risponde seccato con un’altra lettera in cui espone tutta una prevedibile pappardella aziendalista (l’obbiettivo è migliorare il servizio, le sfide si vincono collettivamente, le difficoltà del mercato richiedono sostegno ecc) per liquidare le critiche di Zoso come dietrologia gratuita ad onta di «collaboratori di indubbia capacità e specchiata moralità». Ieri, una lettera di Zocca Sr controbatteva a Colla rilevando come abbia svicolato sul merito, che è questo: se Vianello ha avallato scelte sbagliate e dannose per Vicenza ed è stato riconfermato direttore generale, significa che Variati lo copre e sospettare diventa legittimo. Poi si avventura nella difesa del vecchio in house (un sistema, purtroppo o no, per legge in via di archiviazione in tutta Italia) tramite gli affidamenti diretti, con un cipiglio che a noi potrebbe far sospettare di rimando che sia saltato qualche affare particolare. Sulla contestatissima piattaforma di Marghera, di cui Aim vuole sbarazzarsi, Zocca sostiene la fattibilità di tenerla per smaltire rifiuti. Ma la Provincia di Venezia non è di parere contrario?
Alle somme. Tralasciando il dettaglio comico per cui Zocca ha capito fischi per fiaschi sul giudizio di Zoso a proposito dell'inamovibilità di Vianello, che per l'ex senatore è un male e non un bene (basta leggere…), il triangolo di accuse e controaccuse rende con plastica evidenza una brutta abitudine di chi è al potere: rispondere col silenzio. A casa mia, chi tace acconsente.
BpVi e quei segreti bancari… Praticamente la notizia è stata oscurata, eccezion fatta per VicenzaPiù che l’ha correttamente data col dovuto risalto: assieme ad altre ventiquattro banche italiane, la Banca Popolare di Vicenza di Gianni Zonin è stata declassata dall’agenzia di rating Standard &Poor’s, e ora è appena un gradino sopra la soglia critica. Per carità, lungi da me santificare i verdetti di analisti che non sono affatto indipendenti né dovrebbero avere il diritto divino di mettere in ginocchio interi paesi. Però, se tali giudizi valgono per gli Stati e scatenano reazioni di cui finiamo per pagare il conto tutti noi, non si vede perché debbano essere presi sotto gamba quando riguardano un istituto bancario. Il corollario divertente è che quest’oggi il vicepresidente di Assindustria Vicenza con delega alla finanza, Luciano Vescovi, intervistato da Marino Smiderle penna cara a Zonin,  fa un bilancio della situazione creditizia per le imprese locali (lanciando una proposta che a naso non pare molto attuabile, i bond territoriali) e prende le difese delle Popolari. Smiderle, con perfidia forse involontaria, ricorda che Vescovi è nel cda di Banca Nuova, che fa capo sempre alla Popolare di Vicenza. E infatti Vescovi non fa il minimo cenno alla caduta di credibilità della “sua” banca. Che evidentemente, a dispetto di tutti i peana che le vengono tributati dal coro dei cantori zoniniani, non deve essere messa poi tanto bene. Segno che in questi anni non è stato tutto oro quel che ha luccicato…

giovedì 27 ottobre 2011

Santoro, il finto martire non indispensabile

L’eterno epurato Michele Santoro, aureola di martire in testa e ciotola delle offerte in mano, chiede agli orfani dei suoi programmi una questua di 10 euro per il suo prossimo talkshow, “Servizio Pubblico”, in onda per la prima puntata il 3 novembre alle 21 su un network di tv locali, su Internet e su Sky. Per lui, la sua è l’unica vera informazione. Perché si considera indispensabile. Se lui non lavora, la nazione è meno libera, più disinformata, ostaggio del regime. Intendiamoci: è un fatto che la Rai lottizzata dal governo Berlusconi e, per Rai3, dal centrosinistra, gli abbiano messi in tutti i modi i bastoni fra le ruote, con diffide legali, ostruzionismi, grottesche chiamate in diretta di inetti direttori generali (Masi), tentativi di chiusura da parte del premier in persona attraverso i suoi sgherri a viale Mazzini (vicenda su cui sta indagando la magistratura di Trani), e via boicottando. In una democrazia che si dice liberale, qualsiasi censura, verso chiunque, dovrebbe essere bandita. E ha ragione chi sostiene che è meglio una voce in più che una voce in meno, in una Rai che è pubblica e finanziata dal canone. Ma il soldato Santoro con liquidazione milionaria, l’ex europarlamentare dell’Ulivo che ha sempre pianto il morto pur continuando a lavorare quando altri, autentici emarginati, per la televisione di Stato sono rimasti dei paria, non ha i titoli per darsela da povero cristo perseguitato dal Potere. Lui, nel Potere, ci ha nuotato alla grande, navigando contro una corrente ma rimanendo a galla grazie all’appoggio, più o meno stabile, di quella avversa.
Intendiamoci: bravo, è bravo. Santoro è un signor professionista, conosce e sa usare le tecniche del linguaggio televisivo, e nei suoi prodotti si trovano parti indubbiamente interessanti e ben fatte, come spesso i servizi degli inviati. Vauro e Travaglio erano i momenti migliori, nello studio di Annozero. Ma è la formula del talk a far venire crisi di rigetto, col suo spettacolarismo proprio del mezzo tv, coi suoi corrivi populismi per menti modeste, con la capacità manipolatoria di dividere infantilmente la realtà in buoni e cattivi, il tutto peggiorato da questo tribuno catodico dall’egocentrismo smisurato. Ecco, noi viviamo bene lo stesso senza. E se lo abbiamo guardato e lo guarderemo, è perché siamo ridotti talmente male, in quest’Italia dove solo la Rete e qualche pubblicazione semi-clandestina forniscono spiragli di verità, che il ritorno di Santoro diventa un evento, addirittura fondamentale per la democrazia. Ops, scusate: ho detto democrazia? (a.m.)

mercoledì 26 ottobre 2011

Veneto: Stato o nazione?

Interessante il botta e risposta sul Corriere della Sera fra il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, e il costituzionalista Michele Ainis. Nel suo ultimo fondo di domenica, quest’ultimo aveva sottoposto ad una serrata critica il nuovo Statuto della Regione guidata dall’alleanza Lega-Pdl, individuandone contraddizioni e incongruenze. Alcune osservazioni sono condivisibili, come aver definito «pilatesca» la norma capra&cavoli contenuta nell’articolo 5, che da una parte rivendica le radici cristiane e contemporaneamente l’ispirazione alla tradizione laica; o aver sottolineato il ridicolo dell’articolo 27, che autorizza referendum consultivi ma se a richiederlo è il Consiglio regionale. La sostanza dei rilievi di Ainis si concentra, però, sulla bestia nera dei centralisti di questo Paese: la diversità locale. Sempre all’articolo 5, si affaccia la traduzione giuridica dello slogan elettorale di Zaia “Prima i Veneti”, là dove dice che «la Regione opera in special modo a favore di tutti coloro che, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, possiedono un particolare legame con il territorio, garantendo comunque ai minori i medesimi diritti». Per l’editorialista del Corriere, questo comma vìola il principio di uguaglianza tutelato dalla Costituzione, «alla faccia dell’unità della Repubblica italiana». Inoltre, Ainis nega che l’affermazione statutaria secondo cui «il Veneto è costituito dal popolo veneto» abbia un qualsiasi fondamento: a suo avviso, non esiste nessun popolo veneto, perché un popolo è costituito dall’insieme dei cittadini di uno stesso Stato, e in Italia di Stato ce n’è uno: quello italiano con Roma capitale. La replica di Zaia, pubblicata sul quotidiano milanese ieri, è deboluccia, anzi sbagliata: il popolo veneto «esiste da molto prima dello Stato unitario e della istituzione Regione. Esso ha, da un migliaio di anni, lingua, culture, storia e dignità propri». I Veneti, ad eccezione delle tribù alleatesi coi Romani contro i Galli nei secoli prima di Cristo, effettivamente non sono mai apparsi sulla scena storica come popolo a sé stante, autocosciente di essere tale e con una propria fisionomia univoca e ben delineata. La storia millenaria a cui fa riferimento il padano Zaia è la storia della Serenissima Repubblica di Venezia, che mai si concepì come uno Stato “veneto” ma, appunto, solo e soltanto veneziano. Non è una diatriba nominalistica o storiografica, perché la questione sta nell’avere le idee chiare su cosa sia un popolo. Apro il mio manuale di diritto pubblico e vi trovo scritto che è la nazione quell’insieme di elementi etnici, linguistici, culturali e sociali che, arguisco, ha in mente il governatore quando richiama la preesistenza dell’entità popolare su quella statuale. Se si vuole parlare di nazione veneta lo si può fare, ma non a partire da un passato pregresso che non c’è mai stato. Si deve invece affermare più onestamente – e coraggiosamente – che oggi, nell’attuale periodo storico, è presente l’esigenza di veder riconosciuto alla popolazione che parla in veneto (una lingua e non un dialetto, come ricorda il fondatore della Liga, Franco Rocchetta) e si identifica in un certo corpus di tradizioni e valori, lo status di popolo, cioè di nazione con un suo Stato. Il nodo sta tutto qui: l’Italia è uno Stato, il Veneto no. Cercare di infilare nella carta fondamentale di un ente regionale, un po’ di soppiatto, l’idea che il Veneto lo sia, è un nonsenso giuridico, e su questo Ainis ha ragione. Ma ha torto marcio quando preclude la possibilità che l’indipendenza veneta possa essere coltivata e, chissà, un giorno realizzata. La Storia non si ferma davanti agli articoli di una Costituzione. Se fosse così, la stessa unità italiana non sarebbe avvenuta, e Mazzini non avrebbe potuto combattere per tutta la vita in nome di un popolo italiano che prima del 1861 non c’era mai stato. Personalmente ammiro la Venezia dei Dogi e penso che l’Europa dovrebbe ripensarsi come confederazione di regioni (lasciando agli Stati nazionali una funzione di cornice intermedia, culturale più che politica), ma non mi piace che un partito romanizzato e opportunista come la Lega, pur di salvare la facciata di forza identitaria, giochi al piccolo eversore col sedere in poltrona. Qui, e nei palazzi romani. Questa è la vera critica da muovere ai leghisti, non che tocchino il sacro verbo dell’unità, che si è rivelata un fallimento storico. (a.m.)

martedì 25 ottobre 2011

In nome del marketing, vi dichiaro...


Non conosco Matteo e Benedetta, e saranno senz’altro due ragazzi d’oro. Ma forse con troppa testa all’oro, se questi due giovani, lui veneziano di 26 anni, lei padovana di 23, saranno i primi che importeranno in Veneto il matrimonio-marketing. Lo riporta il Corriere del Veneto, con dovizia di spiegazioni da parte dei due innamorati-manager di sé stessi. Nessuno sfarzo, per carità, si affrettano a dire Matteo Crivellaro e Benedetta Cancilleri. Loro sognano il tradizionale quadretto idilliaco delle nozze normali: «i fiori, il ricevimento, i confetti, l'auto elegante». E fin qui niente di male. Se non fosse che il normale, oggi, costa una cifra abnorme, un lusso che pochi ormai possono permettersi. Come loro, che devono vedersela con il mutuo e una figlia di tre anni.
Non ci si può nemmeno più sposare con quel poco di appariscenza che rende magico il giorno dell’unione. Giustamente, la cronista fa la domanda che sorge spontanea: ma una cerimonia povera, solo il rito ma ricca di cuore, no? No, secondo i due. Che tradiscono una mentalità mercantile che mette i brividi: «Mica vogliamo la carità, la nostra è una proposta di marketing, un cambio-merci: gli sponsor ci danno qualcosa e noi garantiamo visibilità e pubblicità», è l’agghiacciante risposta di Benedetta. Il pudore e la riservatezza di un evento che dovrebbe essere sacro e ristretto ai propri cari, familiari e amici? Macchè. Secondo l’osceno andazzo di mettere in piazza le proprie cose più intime, per attirare gli inserzionisti i futuri sposi apriranno un blog dove pubblicheranno logo, siti e foto delle aziende che li sponsorizzeranno. Matteo espone un vero e proprio business plan: «Offriamo la possibilità di mettere totem con nome e pubblicità di chi ci sostiene davanti alla chiesa e al ristorante, poi un tavolo dedicato agli sponsor, con depliant, biglietti da visita. Ma pensiamo anche ad adesivi e depliant da distribuire nelle Fiere dedicate agli sposi a Padova e a Bologna. Naturalmente massima pubblicità tra parenti e amici. Poi cercheremo di coinvolgere tivù e giornali il giorno delle nozze. Siamo disponibili ad altre forme di cambio- merci che ci suggeriranno loro».
I soliti cervelli all’ammasso tacceranno ciò che sto per scrivere come moralismo, ma io, se non avessi un soldo per sposarmi, lo farei comunque. Sobriamente ma dignitosamente. Poveri ma belli dentro. Non c’è bisogno dell’ambaradan di status-symbol nuziali, dovrebbe bastare un festeggiamento con poche pretese ma molto affetto. E di sicuro non occorre, per pronunciare il fatidico “sì”, mettere in piedi un disgustoso ufficio-vendite dove si fa mercato persino del sentimento più disinteressato che ci sia: l’amore. Un ennesimo scampolo di quotidiana disumanità commerciale. C’è da compatirli, i due sposini di marca. (a.m.)

sabato 22 ottobre 2011

Il violento che è in noi

Alessandro Magno catturò un pirata che infestava i mari. E civilmente, come usava in quei tempi barbari che non conoscevano ancora la "cultura superiore" né gli odierni "eroi della libertà" che si fan liberare dalle armi straniere e poi si dedicano al linciaggio sotto gli occhi compiaciuti del mondo intero o alla caccia sistematica al nero, gli concesse l'ultima parola prima di impiccarlo. Il pirata disse: "Vedi Alessandro, noi due facciamo le stesse cose. Solo che io le faccio con trecento uomini e tu con trecentomila. Per questo io sono un pirata e tu un grande Re". I cinquecento che l'altra domenica hanno messo "a ferro e fuoco" Roma sono oggi, oggettivamente, dei teppisti, ma se diventassero cinque milioni sarebbero dei rivoluzionari, come è accaduto in Tunisia dove una rivolta violenta ma non armata ha cacciato in due giorni il dittatore Ben Alì. E il coro unanime di indignazione, da destra a sinistra, dai fascisti mascherati del PDL, ai fascisti propriamente detti come Ignazio La Russa (che nel 1974 organizzò a Milano una manifestazione dove due giovanissimi militanti dell'MSI, Murelli e Loi, uccisero un poliziotto buttandogli una bomba sul petto) all'estrema sinistra, ai sindacati, ai Pierluigi Battista che in sintonia col premier ha lanciato il diktat "chi non si dissocia anarcoinsurrezionalista è", al Presidente Napolitano, dimentico che era già un alto dirigente del PCI quando il suo sodale Secchia preparava la rivolta armata, significa proprio questo: il timore di questa classe dirigente, che ha la coscienza sporca e nera come la pece, che quei cinquecento decerebrati, smaniosi di distruggere tanto per distruggere, possano diventare cinque milioni che decerebrati non sarebbero. Nei giorni successivi ai fatti ero a Roma, "la capitale ferita", e parlando con amici, conoscenti, taxisti, personale d'albergo, gente incontrata al bar non ho notato una dissociazione così netta dai teppisti, ma un'oscura, sottaciuta, vergognosa soddisfazione. Come se quell'esplosione di violenza li avesse vendicati, anche se per interposta persona, dalle umiliazioni, dalle frustrazioni, dal senso di impotenza che il cittadino subisce ogni giorno. Il fatto è che è diventato sempre più difficile tenere le mani a posto, facendo un tremendo sforzo su se stessi, assistendo quotidianamente allo spettacolo di una classe dirigente, politica, economica, intellettuale, autocostituitasi in una nuova oligarchia nobiliare, con noi cittadini normali retrocessi a sudditi, senza dignità e senza onore, pecore da tosare, asini al basto ad uso di "lorsignori", che mentre "la città brucia" (non Roma, l'Italia), continua nelle solite manfrine, nei soliti giochetti, nelle solite sordide lotte di potere senza tenere in minimo conto quel "bene comune" con cui si sciacqua quotidianamente la bocca. Certo che ci vorrebbero, noi del ceto medio, buoni, civili, educati, rispettosi delle buone maniere, come siamo sempre stati, per poter ruminare in tranquillità i propri privilegi. Ma, come tutte le cose, anche la pazienza ha un limite. E, come dice la Bibbia: "terribile è l'ira del mansueto" o, per dirla più modernamente con Peckinpah del “Cane di paglia". Ed è proprio questo che i politici, gli economisti, gli intellettuali ben sistemati nel regime, temono. Ma questo vulcano che potrebbe esplodere da un momento all'altro è un fatto. Un fatto che si misura attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano 22 ottobre 2011