
Una lunga scia di sangue è stata sparsa in questi anni nel ventre del ricco ma infelice Nordest. Le cause cinicamente tecniche sono la diminuzione degli ordinativi e la restrizione del credito da parte delle banche, elementi scatenati dalla recessione. Ma recessione fa rima con depressione. Di fondo c’è un malessere che qui si tocca in modo più palpabile: l’identificazione portata all’estremo fra vita e lavoro. Troppi, in questo Veneto che ha venduto l’anima al benessere economico, lavorano troppo e troppo si dannano per la ditta e il fatturato. Sono schiavi, perché gli rimane davvero poco tempo per tutto il resto, che poi è la vita stessa: affetti, passioni, svago, e un po’ di sano e dolce far niente. Un senso di responsabilità eccessivo li porta a inseguire la crescita aziendale per poi ritrovarsi in balìa della banca, e quindi della ciclica crisi di un’economia satura e sovraccarica. Il lavoro si rivela allora per quello che è: una pena, un travaglio, un’oppressione. Una corda che si stringe fino a toglierti, letteralmente, il respiro. Per evitare queste morti così atroci bisognerebbe pensarle come l’effetto di un male morale: la fede doveristica nel Lavoro, che spinge all’indebitamento per aumentare e poi mantenere il livello di introiti. Seppur mitigata dal bene morale di una coscienza non egoistica come quella del povero Perin, sempre di un male si tratta. Da cui è necessario guarire per invertire la marcia suicida di un’intera società. I tanti piccoli titolari d’impresa suicidatisi in questo scorcio storico sono i caduti di una guerra invisibile che ci coinvolge tutti, e che ci priva del solo vero benessere: lo star bene con sé stessi, anzitutto.
Alessio Mannino
www.ilribelle.com 22 novembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento