
Ineccepibile il commento dell’avvocato difensore, Paolo Mele: «Non si possono condannare le idee, siamo in uno stato di diritto». Dovremmo esserlo, direi piuttosto. E invece, a parte la giustizia di classe che ancora impera (i processi biblici possono essere economicamente sostenuti solo dai ricchi, i poveracci non possono permettersi i costosissimi plotoni di legali), l’Italia è in preda a ricorrenti deliri di inquisizione sulla pelle di gruppi di volta in volta individuati come nemici pubblici o capri espiatori. Oggi si sente meno, ma negli anni appena trascorsi la scia di paura verso l’islamico inculcata dai media embedded ha fatto scatenare la politica e, giù per li rami, le istituzioni e i corpi dello Stato in una crociata contro l’Islam in generale, e quello integralista in particolare. Dimenticando che in una democrazia liberale quale presupponiamo di essere, ognuno può professare le convinzioni che crede. Anche le più estreme. Purchè non superi il limite del codice penale e cioè, in casi come questo, della violenza. Senza alcuna eccezione per nessuno, fosse pure il più bieco nazista o un demente satanista. Questo principio cardine non va mai messo in discussione, se no c’è il pericolo che si cominci con i musulmani e si finisca col perseguire chi magari non condivide un qualche malmostoso clima di coesione nazionale foscamente unanime (vero, “montiani” di destra e soprattutto di sinistra?). Io, se voglio, devo poter essere antiamericano, anticapitalista, antieuropeista o quello che mi pare, e non devo temere di esprimere ciò che penso pubblicamente e tantomeno privatamente. Altrimenti si ammetta che il nostro non è un sistema liberale e democratico, ma un autoritarismo mascherato, una democrazia totalitaria. (a.m.)
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