Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 18 luglio 2011

In ricordo di Indro


Fra quattro giorni saranno passati dieci anni dalla morte di Indro Montanelli. E’ sempre stato il mio mito. Non solo perché principe del giornalismo, penna formidabile e polemista impareggiabile, ma anche e soprattutto per la sua etica d’altri tempi e le sue umanissime debolezze. Volle scrivere per sé un epitaffio in cui si descrisse come un semplice giornalista. Era, prima di tutto, un uomo. Uno degli ultimi che l’Italia ha avuto prima di essere definitivamente sommersa da ometti, ominicchi e quaraquaquà.
Era cresciuto, il ragazzo di Fucecchio vicino Firenze, alla scuola della Voce di Giuseppe Prezzolini e di Omnibus di Leo Longanesi: riviste vivaci, dissacranti, innovative, all’insegna di una Destra legalitaria ma libertina, rigorosa ma ironica, conservatrice ma aperta al nuovo, borghese ma implacabile critica della vile borghesia italiana. Da convinto fascista volontario in Abissinia, ruppe presto col fascismo, che tuttavia lo lasciò continuare a scrivere per il Corriere della Sera. Quando, nel dopoguerra, tutti si erano trasformati all’istante in antifascisti, scrisse contro la macelleria messicana di Piazzale Loreto, contro la giustizia dei vincitori a Norimberga, contro il vento del Nord che spazzò via la Monarchia per far posto ad una Repubblica bloccata dall’inquietante presenza del primo partito comunista d’Occidente. Combattè senza sosta il conformismo culturale di sinistra portandosi dietro l’ingiusta fama di “fascista”, affibbiata a tutti coloro che divoravano i suoi articoli e i suoi libri (celebri le sue cronache da Budapest contro la repressione sovietica, la sua inchiesta su Venezia distrutta dall’industrializzazione, la Storia d’Italia finalmente liberata dalla pedanteria degli storici di professione) e che poi lo seguirono nell’avventura del Giornale Nuovo. Il quotidiano che diresse per quasi vent’anni – convivendo con una depressione cronica – era l’organo di quella minoranza di liberali ancorati al mito del Risorgimento, alla Patria depurata dagli eccessi del Ventennio, al mercato robustamente corretto da dosi intelligenti di Stato, all’anticomunismo spinto fino al famoso “turarsi il naso e votare Dc”, al rispetto delle istituzioni e dello Stato. Insomma di una Destra che nel nostro Paese, com’era solito affermare, non è mai esistita se non nei primi anni dell’Unità. Una Destra immaginaria che niente ha a che spartire con quella pataccara introdotta da Silvio Berlusconi assieme agli ex missini di Gianfranco Fini e col concorso dei leghisti di Umberto Bossi. Montanelli lasciò la sua creatura perché quando il patron della Fininvest decise di scendere in politica infranse il patto che fino al 1993 aveva garantito a Indro l’indipendenza nel dirigere il Giornale: lui, Silvio, era il proprietario e badava ai quattrini; Montanelli era il padrone e unico depositario della linea editoriale. Berlusconi praticamente lo costrinse a fare le valigie, scavalcandolo nel dare l’aut-aut a redattori e collaboratori: o con lui e la sua Forza Italia o contro di lui e fuori dal Giornale. La maggior parte seguì il direttore nelle breve, disperata sfida della Voce (omaggio all’amico e maestro “Prezzo”), il più bell’esempio, assieme all’Indipendente del non ancora berlusconizzato Feltri, di giornalismo corsaro degli ultimi vent’anni.
Una rottura, questa, che diede un sapore amaro all’ultima parte della sua vita, ch’ebbe tuttavia il ristoro di un quotidiano dialogo coi lettori grazie alla “Stanza” delle lettere che il Corriere gli affidò in un ideale ritorno alle origini in via Solferino. Una vita, quella di Montanelli, segnata come tutte da errori, giudizi sbagliati, vere e proprie cantonate. Cilindro guardava l’Italia con le lenti di un passato che non c’era più. La sua, come ha scritto Massimo Fini di recente, era «un’Italia vecchia, ottocentesca, liberale, l’Italia della grande borghesia e dei notabili, passabilmente ipocrita, bacchettona, morente». Quella nuova, l’Italia di Berlusconi che oggi pure volge al termine, era ed è il paese volgare, sbracato, senza valori, senza orgoglio e sfacciatamente delinquenziale che conosciamo. Un’Italia in cui un temperamento malinconico e fiero, da hidalgo spagnolo come il suo non poteva trovare posto né poteva essere da lui capita.
Ed è proprio questo spirito indomito e solitario a farmelo amare. Non certo la sua ideologia liberale classica, sconfitta dalla storia tanto quanto il socialismo più o meno reale. Non certo il suo antiquato conservatorismo, seppur nobile e ammirevole proprio perché ostinatamente inattuale e controcorrente. E men che meno il suo filo-americanismo, divenuto anacronistico e masochistico già dopo il crollo del Muro di Berlino. Indro per me resterà sempre un modello perché aveva carattere (un brutto carattere come tutti gli uomini che ne hanno uno), che seppe tratteggiare in poche parole rivolte a un giovane, qualche tempo prima di morire. Queste: «L’unico consiglio che mi sento di darti, ma che ti prego di non seguire, è di non essere mai dalla parte del vincente del turno. Se ne hai il coraggio, sii sempre dalla parte del perdente. Ma di coraggio ce ne vuole molto, perché costa caro». (a.m.)

PS: con il post di oggi l’Asso di Picche si ferma fino alla seconda metà di agosto. Scriverò un libro e mi darò agli ozii, un po’ voluti un po’ subìti. Buona estate.

8 commenti:

  1. ma se Montanelli non le piace, lo dica e basta.

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  2. grazie, scusi...
    tornerò

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  3. Abbiamo un fine battutista, qui. Rallegramenti.

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  4. cerco di risollevare la media.

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  6. Salve. C'è solo un punto che non condivido: lei parla dell’«inquietante presenza del primo partito comunista d’Occidente.»
    Anche lei crede alla vulgata secondo cui il Pci fosse un pericolo per la democrazia e abbia "bloccato" la Repubblica?
    Tra tutti gli ENORMI difetti che aveva il Pci non mi sembra che ci fosse questo. I veri danni gravi ha iniziato a farli dopo il '94, quando ormai si chiamava già da qualche anno Pds.

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  7. Inquietante è inteso nel senso che inquietava lui, Montanelli. E devo dire che ne aveva ben donde: grossomodo fino a Berlinguer, che impresse una svolta benefica al Pci, dietro il primo partito comunista d'Europa c'era una cosuccia chiamata Unione Sovietica. I comunisti italiani, per quanti meriti certamente ebbero e sarebbe disonesto negarglieli, fino agli anni '70 ebbero tuttavia anche una caratteristica deleteria: il legame con Mosca. O con Mosca o con Washington: tertium non datur, ai tempi di Indro. Lui scelse l'America, coerentemente con le sue convinzioni liberal-moderate. Io non amo i processi scaduti per prescrizione dei termini, in questo caso storici. Dico solo che oggi la situazione è completamente diversa, e che al di là delle contingenze, di uomini come Montanelli ci sarebbe un gran bisogno. Non ne fabbricano più di quella pasta.

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