
In sostanza, con quel suo «la misura è colma», ha voluto far presente il rabbioso risentimento della terza associazione confindustriale d’Italia per le promesse mancate, l’inconcludenza parolaia e la vergognosa incapacità di governo del centrodestra cui il Veneto delle piccole e medie imprese aveva dato la sua fiducia e i suoi voti. Di qui il segnale simbolico dell’assenza sul palco di politici, quei chiacchieroni che hanno davvero stufato. Ma di segnali si tratta, e basta. Di ululati alla luna. Quante volte dagli imprenditori del Nord abbiamo sentito la litanìa di una Roma che non ascolta, che non mantiene, che non fa? Da quando abbiamo i calzoni corti. E il fatto che quest’anno si siano lasciati fuori dal posto d’onore i politicanti coi loro bla bla sarà pure un messaggio chiaro e forte, ma sai che tremarella, nelle segreterie dei partiti. Già più incisivi e fattivi erano stati i colleghi di Unindustria Treviso, che di recente hanno inscenato una marcia di protesta, silenziosa ma ben più minacciosa. I fatti che giustamente Zuccato reclama (un federalismo vero e benefico, il taglio ai costi della politica, ecc) dato che non arrivano, devono trovare una risposta in altrettanti fatti da parte della sua categoria. Altrimenti anche loro, i padroni e padroncini del vapore, cadono nello stesso peccato di cui si fanno accusatori: parlare troppo, agire poco. Un’idea? Facciano dimettere chi fra loro è in parlamento, o in Regione, o a qualsiasi livello politico. Un gesto eclatante che equivarrebbe a un’assunzione di responsabilità ma anche a una presa di distanza netta e totale da un sistema bloccato, inerte, autoreferenziale.
Zuccato ha toccato anche un altro argomento chiave: la precarietà. «La precarietà impedisce di guardare lontano, di progettare il futuro», ha ben detto il presidente di Assindustria Vicenza. Ma, oltre che la sinistra (pacchetto Treu) e la destra (legge Biagi-Maroni), chi l’ha voluta, difesa, imposta la precarietà? I datori di lavoro, cioè loro, gli industriali. Recitare la giaculatoria di rito per mostrarsi sensibili alle sofferenze di una generazione non servirà ad alleviarle né tanto meno a risolverle. Si dica piuttosto: mettiamo mano alla legislazione sul lavoro mettendo al centro la vita dell’individuo. Fosse per me, questo folle modello economico fondato sul debito permanente e le crisi programmate andrebbe rivoltato da capo a piedi. Ma se vogliamo restare in un’ottica immediata, almeno si reimposti la flessibilità lavorativa sul seguente assunto: in cambio di contratti a tempo si attribuiscano garanzie obbligatorie via via crescenti. Insomma: assunzioni temporanee e a paga ridotta come decollo iniziale, e poi un graduale ma garantito percorso verso l’occupazione stabile e piena. Ci aspetteremmo concretezza, dai rappresentanti dell’industria, visto che è la concretezza che dicono di volere. (a.m.)
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