Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

venerdì 15 luglio 2011

Nordest, morte di un mito

Come minimo sarà la decima volta che si sente dire che il modello Nordest è finito. Ormai la crisi del cosiddetto Nordest è un luogo comune, esattamente come prima lo era la sua glorificazione. Argomenti buoni per convegni, editoriali e salotti più o meno inutili. Il Nordest, infatti, non è mai esistito. Se non come etichetta giornalistica ideata dalla immaginifica penna di Giorgio Lago, compianto direttore del Gazzettino degli anni ruggenti.
«A parte la definizione in sé, cioè in una zona che sta a nord-est dell’Italia, non c’è nessuna omogeneità né politica, né di tradizioni che accomuna questo territorio», ha scritto la giornalista economica Alessandra Carini nel suo aureo libretto “Lettere da un sistema mai nato” (Marsilio, 2007). L’unico comun denominatore è stato innegabilmente economico: un pulviscolo di medie, piccole e piccolissime imprese, singole o radunate in distretti, per lo più orientate all’esportazione, il cui boom è avvenuto negli anni ’90 grazie alla lira debole e ai vantaggi di una competizione globale non ancora inondata dai prodotti orientali e cinesi in particolare. Ma non ha mai fatto davvero “sistema”, l’area del Triveneto. Ogni azienda si è sviluppata pensando a sé stessa e alla propria filiera, ogni distretto ha fatto da sé, ognuna delle tre Regioni (Veneto, Friuli, Trentino-Alto Adige) è andata per conto suo, e i campanilismi fra province sono rimasti intatti quando non si sono accresciuti.
La realtà è un’altra: esistono i Veneti, i Friuliani, i Trentini, i Sud Tirolesi, e fra di loro ci sono più differenze, culturali, politiche, storiche, che somiglianze. Ed è inevitabile che tali diversità si riflettano sul tessuto economico, che difatti presenta la caratteristica principe che davvero li lega: il localismo. Al contrario di un altro, tronfio pregiudizio che vuole la globalizzazione come un bene in sé, per me “localismo” non è una parolaccia. A ben guardare, non è nient’altro che l’espressione dei caratteri specifici di un luogo. Nulla di malefico o di trascendentale. Il pensiero unico afferma perentorio: la spinta localista ostacola la necessità, considerata un obbligo indiscutibile, di aggregare, unire, accentrare. E si parla solo dell’organizzazione del territorio in termini di infrastrutture, credito bancario e coordinamento amministrativo, ma anche delle imprese stesse, che devono fare il salto di quantità e ingrandirsi. Come faceva giustamente notare sul Corriere del Veneto di ieri Beppe Bortolussi della Cgia di Mestre citando l’economista Krugman, l’economia mondiale vede in crescita il gigantismo soltanto in pochi ambiti (automobilistico, bancario ecc), per il resto la piccola e media dimensione rimane la più diffusa e vincente. L’ecatombe di chiusure, tracolli e ristrutturazioni è dovuta a un crack di origine finanziaria che dalla Lehman Brothers si è riverberata fino all’ultimo sperduto padroncino.  L’autentico problema del nostro modello di sviluppo, la cui spina dorsale è la micro-impresa, è rappresentato proprio dallo strapotere incontrollato e anarchico della finanza, che non rispetta nazionalità, peculiarità, storia, sudore e fatiche. Per la locomotiva nordestina in rottamazione è la nemesi: dall’incipiente internazionalizzazione dei mercati ha preso lo slancio iniziale, dalla sua maturazione spietata e delocalizzatrice ha ricevuto il colpo mortale. Il risultato è una terra sfruttata all’osso, sconciata e desertificata, ridotta a una desolante successione di capannoni mezzi vuoti, con le ditte un tempo protagoniste del “miracolo” costrette a trasferirsi nell’Europa dell’est o in Estremo Oriente. Il Nordest, in pratica, si è auto-abolito.
Potrebbe sembrare cinico e sicuramente è tremendo il solo pensarlo, ma la salvezza potrà arrivare da un’altra, questa volta definitiva implosione della bolla di debito su cui galleggia il mondo intero. Solo allora, se chi vive di lavoro produttivo si sveglierà per i morsi della fame vera, solo a quel punto, forse, ci si deciderà a ricominciare a far politica e metter mano a un’economia impazzita e fuori controllo. Come? Ad esempio, una volta che l’euro sia diventato carta straccia, battendo una nuova moneta libera dal debito del signoraggio a cui affiancare valute locali, secondo le idee di quel grande che è stato Gesell, eretico volutamente cancellato dai libri di storia. E ancora: riprendendo quella sana, naturale predisposizione dell’animo umano a difendere la vita e il lavoro della comunità in cui si vive, adattandola al contesto, ahimè consolidato, della mondializzazione. Quindi accantonando definitivamente il feticcio degli Stati nazionali sovrani di nulla, e facendo dell’Europa unita e radicata nelle regioni un mercato autosufficiente, basato su un sistema che non insegue una crescita infinita non più possibile, ma su consumi più umani e sulla produzione sostenibile di energia (in Germania si stanno già diffondendo a macchia d’olio gli impianti domestici di autogenerazione solare ed eolica). Una combinazione di localismo economico ed europeismo politico contro la dittatura degli anonimi mercati globali. Altro che le chiacchiere sul Nordest. (a.m.)

4 commenti:

  1. Un bel pezzo quasi del tutto condivisibile. Come direbbe Carlà: bravò.

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  2. Mi piace! A tal proposito la legge 262 del 28 dicembre 2005 che impone - di fatto - la nazionalizzazione della Banca d'Italia giace moritura...Purtroppo!

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  3. Sia un uomo di sinistra che un uomo di destra concordano con me. Dove ho sbagliato? :-)

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  4. Vuol dire che sei un democristiano.

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