Ieri era il centenario della nascita di Albert Camus, il mio Camus, il
nostro Camus, di noi ribelli che un po’ da lui discendiamo tutti. Un uomo in
rivolta dice no, era il motto camusiano. Io quest’oggi dico no a farvi leggere
la milionesima microbiografia inutile. E vorrei parlavi di quel che ho imparato,
dal libertario di Algeri che banalmente, come un uomo comune qual era, morì in
un incidente d’auto.
Era partito giovanissimo comunista, e rimase iscritto alla chiesa
marxista per neppure un anno. Allergico com’era ai dogmi e alla militarizzazione
delle coscienze, non poteva resistere a lungo ad adorare il verbo di Stalin. Si
buttò nell’agitazione culturale, perché era sì engagé, ma organico a niente e
nessuno. Primo insegnamento: mai restare intruppati per un malinteso senso di
gruppo o della disciplina se il tuo esercito si rivela una gabbia, se ti
costringe a troppi compromessi, se oltrepassa il limite del bene più grande,
l’esigente coerenza con se stessi.
Francese d’Algeria, si sentiva algerino nel senso più ampio della
parola: per lui la differenza etnica fra colonizzati e colonizzatori non sussisteva
e non doveva sussistere, perché entrambi ospiti della terra e del sole di quel
lembo di Mediterraneo. Di qui, quando scoppiò la guerra d’indipendenza contro
la Francia, la sua posizione contraria al terzomondismo allora obbligatorio a
sinistra, in nome di un sogno diverso: la convivenza. Politicamente, era
un’idea che non si reggeva, diciamolo pure: irrealistica. Nel senso che era
anti-storica, presupponeva che il colonialismo e il moto di liberazione
potessero conciliarsi in una nuova formula di concordia. Secondo insegnamento:
la fedeltà alla radici, che tuttavia deve calarsi nel momento storico
altrimenti diventa illusione poetica. E infatti lui, l’autore del Mito di
Sisifo e dell’Uomo in rivolta, rifiutava sia la definizione di filosofo che
l’etichetta di esistenzialista, che lasciava volentieri all’amico-nemico Sartre,
invecchiato male a recitare la parte di guru impennacchiato. Preferiva sentirsi
chiamare scrittore, uomo di lettere, poeta nel senso originario del termine.
Più delle idee amava le parole, purché quelle giuste, aderenti alla vita: “dare
un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”, scrive nel
romanzo La Peste. Sulla scia di Nietzsche,
si può dire che l’anima di Camus sta nel mettere sopra ad ogni
considerazione l’amore per la vita, affrontandola così com’è, col suo dolore,
il suo male, la sua congenita assurdità. E superarne l’orrore e l’angoscia
rivoltandosi contro l’ingiustizia degli uomini, l’unico male che si può
combattere e alleviare non inutilmente. Senza pietismi, auto-inganni, comode
certezze, scorciatoie ideologiche, assumendosi fino in fondo la responsabilità
delle scelte. Terzo insegnamento: la sola possibilità autentica di dare senso
al non senso dell’esistenza è immergersi nel flusso eracliteo del cambiamento,
desiderandolo, rivendicandolo, facendone consapevole bandiera di un contrasto,
una volontà trasformatrice, un’attiva ribellione alla situazione data,
all’ordine costituito, all’esistente che potrebbe essere, e sarà, differente.
Un impegno quotidiano per migliorare la condizione tragica dell’uomo, qui e
ora, sapendo tuttavia che il nocciolo tragico della vita resta invincibile.
Ecco perché Camus si oppose sempre, infischiandosene di tutto e di
tutti, a conformismi di ogni sorta, anti-totalitario per istinto, indole
demistificatoria, con il giudice unico della propria coscienza. Fu antifascista
e anticomunista senza per questo essere un volgare liberale, contrario alla
pena di morte e difensore dell’Individuo contro il Leviatano, sia esso il
Partito o lo Stato: uno Straniero
ovunque, figura alla quale dedicò l’altro suo romanzo più famoso. Quarto
insegnamento: più importante del giudizio di un Dio astratto, religioso o umano
troppo umano non importa e inevitabilmente carnefice, poiché l’intolleranza è
prerogativa di qualunque credo assoluto, è il giudizio mio, di singola testa
pensante che semmai desidera una comunità d’appartenenza come atto libero e
volontario (“ordine libertario”, è l’espressione che Onfray ha usato per
descrivere il pensiero camusiano).
Innamorato del meriggio mediterraneo, Camus spiegò la sua visione
tremendamente lucida della libertà interiore in un altro mito, racchiuso
nell’Edipo di Sofocle. Cieco e disperato, sul finire della sua vita mortale
l’eroe più infelice capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è
la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora:
“Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dell’anima mia mi
fanno giudicare che tutto sia bene”. Bisogna immaginare Edipo-Camus felice,
perché aveva lottato e sofferto come un vero ribelle e aveva scoperto il
segreto ultimo, letteralmente a portata di mano.
Alessio Mannino
www.ilribelle.com 8 novembre 2013
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