E così anche Vicenza vedrà la sua Festa dell'Unità, rinominata “Fornaci
Rosse” perché si svolgerà nell’omonimo parco. A promuoverla una costola
giovanile del Partito Democratico vicentino, l’associazione “Nuova Sinistra”, che vorrebbe ancora dire “qualcosa di sinistra”. La kermesse storica deve
il suo nome, com'è arcinoto, al quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci,
e che oggi è uno dei due giornali di area Pd (l'altro è Europa, foglio semiclandestino e moribondo). La testata che fu
organo del Partito Comunista aveva una sua dignità editoriale e critica -
pensate a Fortebraccio o al satirico Cuore - mentre oggi è a un passo dal fallimento.
E non solo economico, ma d'identità. Che senso dare ad un nome, una storia e
una realtà schiacciata da La Repubblica,
giornale-lobby di De Benedetti azionista occulto del partito, e insidiato dal Fatto Quotidiano, altrettanto in ambasce
(è dovuto sbarcare in Borsa per racimolare liquidità) ma ben più spregiudicato
e agguerrito? Da rossa, l'Unità è
diventata grigia. Ma ecco che viene in soccorso Matteo Renzi, e col suo fiuto
per il marketing decreta che il brand "Unità" può ancora funzionare,
per evocare un mondo di sinistra che non c'è più e più non ci sarà. Può
funzionare, si capisce, solo come marchio e logo per le feste a base di
salsicce, nostalgia e conferenze. Per i giornalisti che aspettano lo stipendio,
ultimi sfortunati eredi di una gloriosa tradizione, si vedrà.
Se possiamo, suggeriamo un tema a compagni e compagnucci. Uno di quelli che
permette, se Dio vuole, un contraddittorio, magari invitando anche industriali,
sindacalisti di vario orientamento, persino intellettuali (brutta parola, ma è
per capirci). Ci riferiamo alla partecipazione dei lavoratori alle imprese. Qui
a Vicenza sia Confindustria sia la Cisl ne hanno fatto un cavallo di battaglia,
sia pure in versione soft (niente gestione, solo ore di lavoro in cambio di
quote). Scettica la Cgil, che vorrebbe tradurla in effettivo potere decisionale
all'interno delle aziende. A inizio anno sia Renzi che Alfano aveva ripescato
dal cilindro l'idea, spacciandola come una novità loro. Vediamo di capire cos'é
e da dove viene.
La cogestione fra imprenditori e lavoratori proviene idealmente del
sindacalismo socialista, non marxista ma mutualista, cooperativistico,
d’ascendenza proudhoniana, libertaria, rispettoso della proprietà privata.
Venne poi fatta propria, in modi ovviamente diversi, dal corporativismo prima
cattolico poi fascista, quest’ultimo specialmente nella versione hard di Ugo Spirito (la “corporazione
proprietaria” in cui capitale e lavoro si sarebbero fusi: una prospettiva
rigettata dal regime, che la considerò “bolscevizzante”, e che preferì
contentarsi di un carrozzone burocratico, appunto corporativo nel significato
peggiore del termine). L’unico vero esperimento su larga scala in Italia, che
non decollò perché autoritario, tardivo e calato dall’alto mentre infuriava la
guerra civile, fu la “socializzazione” tentata dalla Repubblica di Salò. In
tempi più recenti e democratici, a parte le marginali “comuni anarchiche”
statunitensi e i kibbutz israeliani, ha avuto una massiccia applicazione in
Germania con la cosiddetta “economia sociale di mercato”, nota anche come
“modello renano” o “Bitbestimmung”: i sindacalisti siedono nei consigli di
amministrazione delle grandi aziende in rappresentanza del capitale detenuto
dai dipendenti. La “via tedesca” (a cui Renzi, proprio lui, aveva fatto cenno
nello scorso gennaio) è osteggiata dal ceto imprenditoriale, mentre l'altra
versione (azioni legate alla produttività e distribuzione di parte degli utili)
è la formula più moderata che va per la maggiore. Anche Beppe Grillo nel 2013 aveva
prospettato la compartecipazione, e ci aveva aggiunto a corollario lo
svuotamento del sindacato in quanto tale.
Una discussione possibilmente seria sul tema non c’è mai stata davvero. Il
solo immaginare una ricostruzione dell’economia in senso partecipativo è
vietato dal politicamente corretto. Perché vorrebbe dire incidere nella carne
viva del sistema economico: la proprietà e il meccanismo decisionale. A grandi
linee si tratterebbe di un’epocale riforma che avvicinerebbe l’impresa alla
cooperativa: sempre privata, sempre di mercato, ma sociale. A condizione che il
singolo lavoratore possa contare qualcosa, e questo senza sottostare necessariamente
al filtro sclerotizzante e potenzialmente clientelare delle burocrazie
sindacali. Tutto questo è di sinistra? Sinceramente, chi se ne frega. Per tutto
il resto, si apra il dibattito. a.m.
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