Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 26 marzo 2012

Precariato, voci dall’inferno

Il governo del liberista Monti vara la riforma Fornero, che ridotta all’osso vuol dire licenziamenti più facili e una regolamentazione del precariato, che però continuerà a esistere seppur in una forma meno caotica. Questa è anche la sensazione dei precari, gli schiavi moderni dell’economia globale.
Alessandra, 32 anni, diploma classico e laurea in sociologia a Padova, durante il periodo universitario era una studente-lavoratrice («al mattino a lezione o sui libri, di pomeriggio baby-sitter, di sera dietro al bancone di un pub») aveva tentato la via del master. «In scienza e tecnologia: ne sono uscita con un voto alto e uno stage in un istituto di ricerca», che al termine le offre un primo contratto di collaborazione, rinnovato di anno in anno ogni 4-5 mesi fino a oggi. E sono passati sei anni. «La stabilità è un miraggio, resto sempre una consulente. Porto a casa 1200 euro al mese. Per poter far quadrare i conti, col mio ragazzo che ne prende 500 in un call center e un figlio di due anni, sono tornata a fare qualche sera al pub». Le viene quasi da piangere: «C’è chi mi dice che abbiamo fatto una pazzia a fare un figlio. Una pazzia un figlio, capisci? Ma devo rinunciare all’amore e alla famiglia?». Monti e Fornero? «Ci prendono in giro. Da quel ho capito, io non potrei più essere riassunta ogni tot mesi ma a un certo punto dovrebbero darmi il tempo indeterminato. Bene: ma chi impedisce al mio datore di lavoro di ricominciare daccapo con un’altra persona, eliminando me?».
Sergio, 30 anni, si definisce «vittima dell’inferno interinale». Non è laureato, ci ha provato ma ha dovuto abbandonare per motivi economici e familiari («dovevo sostenere i miei, dopo che mio padre è andato in cassa integrazione»). La sua odissea è cominciata dieci anni fa in un supermercato come magazziniere, appena 6 mesi. Allora si è iscritto a tutte le agenzie interinali di Vicenza: «e tutte mi dicevano che lavoro non ce n’è perchè avevo un inutile diploma scientifico e non avevo esperienza. Ho frequentato dei corsi organizzati dalle agenzie, anche a pagamento: contabilità, vetrinista, di tutto…». Risultato: nulla. «Tornai al supermercato, poi riuscii a fare il commesso in un negozio di abbigliamento visto che con la parlantina ci so fare». Ma dopo un anno basta anche qui, e torna a fare il giro delle sette chiese interinali. «E sai cosa mi dissero? Che avevo troppa esperienza qua e là, frammentata…». Sergio è nero: «Quando vedo i nostri politici, compreso il presidente di questa repubblica delle banane, che vogliono solo dare un ritocchino alla loro tanto amata flessibilità mi vien voglia di… non lo dico nemmeno». No, dillo, per favore. «Altro che forcone… Ci siamo capiti, no?». Anche troppo.
Andrea aveva un sogno: lavorare in un’azienda informatica. E’ il classico cervellone tutto computer e tecnologia, ma non un nerd («mi piace la campagna e l’aria aperta, e se avessi più tempo, maledizione, farei anche più sport, la pallavolo»). Ha 27 anni ed ha una laurea in informatica. Dopo l’alloro e un 108, riesce a entrare come stagista in una ditta del ramo. «Ero pieno di entusiasmo, stavo facendo la gavetta con l’animo alle stelle, mi facevo il mazzo ma ero felice». Dopo 9 mesi ecco il cocopro, scadenza 6 mesi, ma deve trasferirsi a Milano. Lo stipendio è buono, 1800 euro al mese, ma deve pagarsi tutte le spese da solo. Lui ci prova ugualmente, un po’ di aiuto glielo danno i genitori. Lavora come un mulo, ma spera. Alla fine, non viene riassunto. «Mi hanno detto, brutalmente, che hanno la fila fuori dalla porta e se vogliono trovano pure chi lavora gratis. Mi avevano dato una chance perchè sono bravo, ma sanno che non posso resistere a lungo con l’affitto da pagare e loro un aumento non me lo danno neanche per sogno». Così ha dovuto fare le valige ed è tornato nel suo paesino del Vicentino. Invia il suo curriculum ovunque e non demorde, ma gli è rimasta dentro una grande frustrazione. «Io dico solo questo: fa bene la Cgil a combattere sull’articolo 18, perchè non è possibile concedere sempre tutto, non è giusto essere trattati come sacchi di patate, da buttare via quando non serviamo più».
Mario di anni ne ha 32 e, dopo una trafila di lavoretti precari, da 4 fa il mediatore finanziario. Lui è un privilegiato: è riuscito a conquistare il tempo indeterminato. «Ho un fisso e le provvigioni, campo bene ma vivo ancora coi miei perchè, essendo single, da solo non riuscirei a risparmiare nulla». Sul nuovo mercato del lavoro è molto critico: «Il succo del discorso è che ora sarà più facile mettere sulla strada anche me». Si parla di un’assicurazione sociale (il fondo Aspi), per chi resta disoccupato. «Anzitutto la riforma parte dal 2017, vero? Chissà i governi futuri cosa combineranno nel frattempo. E voglio proprio vedere se i soldi per il sussidio di disoccupazione ci saranno davvero». Quindi il posto di lavoro dev’essere inamovibile? «Non dico questo, ma non credo neanche un po’ alla volontà di tutelare il lavoratore, come dice la “Frignero”. L’unica soluzione sarebbe il reddito di cittadinanza, ma non ci saranno mai i soldi perchè questo vorrebbe dire ridiscutere tutto il sistema economico e sociale». Pensieri alternativi… «No, io che vivo costantemente sotto stress, che non ho il tempo neanche per pisciare, che vedo i miei colleghi più anziani imbottirsi di psicofarmaci e qualcuno beccarsi, a 40 anni, l’infarto, che con la crisi ho visto diminuire la mia clientela, che ho visto un imprenditore che conoscevo suicidarsi, penso solo che la gente che ci governa vuole solo che diventiamo automi. Sono dei bastardi».
Alessio Mannino
www.nuovavicenza.it 23 marzo 2012

giovedì 15 marzo 2012

Il lucido e serio masochismo degli svizzeri

“Volete sei settimane di ferie all’anno, obbligatorie?”. Ieri il 66% degli svizzeri che ha votato il quesito referendario - 16 giorni in più di vacanze - ha risposto no, non le vogliamo. E’ la sesta volta che la Svizzera rifiuta di aumentarsi il periodo vacanziero. Sono svizzeri, si dirà: un popolo di orologiai e bancari, gente precisa, metodica, indefessa.
Gente seria da un lato e fessa dall’altro, alla luce del risultato di ieri. Seria, indubbiamente. E’ ammirevole che si possa discutere e si faccia votare un tema che ha a che fare con la vita concreta delle persone com’è la quantità di lavoro. Su questi argomenti banali ma importantissimi, da noi, nell’Italia dei Marchionne, dei Berlusconi e delle coop ex rosse, vige il divieto assoluto anche solo di dibattito. Lavorare meno? Un tabù, non se ne parla neanche. Gli svizzeri, con una pluricentenaria storia di democrazia diretta, si dividono e si esprimono su tutto, senza pregiudizi. Questa è civiltà.
Nel caso specifico, i due fronti erano uno, i promotori, il sindacato Travail Suisse e in generale la sinistra, l’altro gli industriali e la destra. I primi sostengono l’evidenza, e cioè che il lavoro contemporaneo è frenetico e stressante, e che poter staccare salvaguarda la salute e la qualità stessa del lavoro. I secondi hanno replicato con una massiccia campagna al grido, scontato come un orologio svizzero, “Più vacanze=meno lavoro”, ma anche affondando emotivamente con uno spot in cui si vede un paziente in ospedale che attende invano l’intervento per mancanza di staff. Hanno vinto questi ultimi, forti del clima teso e pauroso dovuto alla crisi mondiale e al timore di perdere ricchezza in termini di prodotto interno lordo. Ha vinto, insomma, l’ideologia iper-lavoristica della crescita e della competitività ossessiva.
E per di qui emerge l’altra faccia del voto: la fessaggine dei nostri integerrimi confinanti. Che è anche nostra. Rincorrere all’infinito il miraggio di un benessere sempre sull’orlo di una crisi di nervi – una speculazione di borsa, una tempesta dei mercati, le politiche economiche e finanziarie una volta degli Usa e l’altra della Cina o dell’India – è dopare un tossico che prima o poi ci rimarrà secco. I tossici siamo noi occidentali, malati di globalizzazione e di doverismo insensato. Gli svizzeri, a cui il senso del dovere non manca, hanno confermato la scelta di perseguire una strada di fondo sbagliata, radicalmente suicida. E lo fanno come loro sanno fare: seriamente e democraticamente. Un’inquietante prova di lucida e sgobbona follia. A questo punto, e va detto con una punta di amarezza, meglio tenersi stretta l’arruffona indolenza mediterranea, naturale resistenza sabotatrice a questo compulsivo attaccamento al lavoro, lavoro, lavoro, lavoro, lavoro... Lavorare meno, lavorare tutti.
Alessio Mannino
www.ilribelle.com 13 marzo 2012

lunedì 12 marzo 2012

Festa delle donne? No, dei maschi in gonnella

Piccola riflessione nel giorno della festa delle donne. Il presidente Bankitalia, Ignazio Visco, ha ripetuto il mantra del pensiero unico: siccome siamo una società di anziani, bisogna lavorare di più e per più tempo. E' il classico modo di ragionare aritmetico dell'economia: se hai più tempo a disposizione, devi impiegarne di più per produrre. Ogni altra considerazione disturba, perchè non rientra in parametri econometrici. Ma visto che la data di oggi pone il problema del rapporto fra vita e lavoro femminile, chiedo, anzitutto alle donne: ma bisogna vivere per lavorare, o lavorare dovrebbe servire a vivere, possibilmente bene, sereni e realizzati?
Le donne, giustamente, denunciano l'ingiustizia sul lavoro legata allo stato di gravidanza (mancate assunzioni, nero o licenziamenti per il bebé in arrivo). Questo esempio rende, purtroppo, benissimo lo stravolgimento di senso dell'odierno mondo dell'occupazione: la lavoratrice è una variabile usata o gettata come se le sue umane esigenze, in questo caso di fare una famiglia, siano pesi morti per l'efficienza aziendale. La vita che nasce è un peso morto, letteralmente. E' o non è una follia?
Ma la maternità ostacolata e mal sopportata vale anche come spia più profonda di un errore, un tragico errore commesso dal femminismo di massa (che è altro rispetto a quello teorico degli anni che furono, benché da esso ne tragga giustificazione): quello di appiattire la specificità femminile sui ruoli maschili. La donna è davvero contenta di volere, anzi di dovere rincorrere gli uomini in tutto e per tutto, a discapito del proprio essere madre, generatrice e custode dei figli piccoli? Salvaguarda la loro diversità di genere il tradurre la parità come ricerca dell'uguaglianza assoluta? Perchè mai dovrebbero lavorare per forza quando potrebbero dedicarsi agli affetti?
La verità è che la battaglia per rendere le donne interscambiabili con gli uomini nei posti di lavoro è funzionale ad un modello di sviluppo che ci pretende tutti, maschi e femmine,  a sgobbare sempre di più, come dice Visco, per avere sempre di meno. Di meno non solo in termini di busta paga (rasoiata da nuove tasse, bollette all'insù, benzina alle stelle, inflazione da euro-fregatura), ma soprattutto sul piano esistenziale, della vita concreta, con dentro i progetti, i sogni, le passioni, le speranze. Dovrebbero essere proprio le mimose di oggi a ricordare, in particolare alle festeggiate, che prima viene la vita, e poi vengono gli indicatori macro-economici. Il fatto è che le donne maschilizzate inseguono il mito disumanizzante del Lavoro come totem, mentre lavorare dovrebbe essere solo uno fra i campi di realizzazione individuale. Fra essi, per una donna, e solo per lei - così ha decretato la natura, e speriamo che qualche scienziato pazzoide non pensi di inventare il "mammo" - c'è il diritto di donare la vita. Non è un dettaglio: è da lì che comincia tutto.
Se questa giornata servisse a rivendicare la differenza, l'adattamento di genere al lavoro (senza nostalgie per l'eccesso opposto, per l'iconografia zuccherosa e falsa dell' "angelo del focolare"), insomma a risvegliare una donna che vuole restare femmina, pari ma non uguale al maschio, allora avrebbe senso. Al contrario, pare di capire che l'omologazione al delirio, tutto maschile, del lavorare come somari da mane a sera passa come il messaggio della donna affermata. E invece è schiavizzata e uniformata. La festa dell'androgino, dovrebbero chiamarla.
Alessio Mannino
www.nuovavicenza.it 8 marzo 2012