Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

martedì 25 settembre 2012

Sì al mercato, no al capitalismo. Parola di bocconiani



Udite udite: dalla Bocconi escono cervelli critici, non soltanto dogmaticamente liberal-liberisti come l’esimio Mario Monti. Insegnano storia economica nella famosa università milanese, i professori Massimo Amato e Luca Fantacci, autori di un consigliatissimo libretto pubblicato dalla Donzelli nel luglio scorso, “Come salvare il mercato dal capitalismo”. Il titolo può mettere in sospetto il lettore anti-sistema: non è che questi due, giocando sui concetti di mercato e capitalismo, in realtà hanno l’intenzione di salvare lo status quo che nei fatti vede i due termini come sinonimi?
Economia liquida
Il fondamento su cui i due bocconiani costruiscono la loro analisi consiste, al contrario, nel disconoscere la sinonimia abituale. Il mercato è l’economia dello scambio misurato attraverso la moneta, il capitalismo è il mercato dominato dalla finanza. Il primo è da salvaguardare, il secondo da combattere e abolire perché rende lo scambio succube della mercificazione del credito. 
Leggiamo: «Economia di mercato e capitalismo … a ben vedere, sono anzi incompatibili. Il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo: il mercato della moneta e del credito». Di troppo, nel doppio senso negativo che riveste la liquidità o finanziarizzazione: «da una parte, è il carattere del credito, nella misura in cui può essere comprato e venduto su un mercato, il mercato finanziario, come quel luogo dove si investe senza responsabilità e tutti ci guadagnano. D’altra parte la liquidità è anche il carattere eminente della moneta capitalistica, nella misura in cui è una moneta che può essere trattenuta indefinitamente, come forma suprema della ricchezza, come rifugio sicuro in tempi di incertezza, quando non ci si può più fidare di nessuno». In altre parole, il male originario del sistema capitalistico sarebbe nel suo fondarsi sull’illusione del profitto illimitato e abbordabile da tutti, resa possibile da una moneta basata sul debito. 
Il problema a monte, insomma, è l’economia liquida, è la liquidità definita come «il principio per cui i debiti non sono fatti per essere pagati ma per essere comprati e venduti su quel mercato sui generis che è il mercato finanziario. La liquidità trasforma il rischio inerente a ogni atto di credito… in un rischio ben differente:  il rischio che i titoli che rappresentano i debiti non trovino più acquirenti». Che è esattamente la tipica situazione di insolvenza riscontrata nella crisi mondiale di questi anni. 
Creditore fa rima con debitore
Ma, secondo Amato e Fantacci, neppure la finanza è un male di per sé. A patto di intenderla come si dovrebbe intendere l’intera economia: come una relazione di cooperazione, e non di concorrenza. Una cooperazione non certo moralisticamente compassionevole, sia chiaro: il creditore ha interesse che il debitore possa pagare il suo debito, e il debitore ha interesse a pagarlo per non diventarne schiavo. 
La liquidità o finanziarizzazione opera una scissione, perché rende la relazione una merce, un pezzo di carta rivendibile, e rivendibile in tempi sempre più brevi e veloci (la famosa speculazione). D’altronde questo fa la finanza sanguisuga: compra, vende e rivende, impacchettati e spacchettati, i debiti. E infatti la famigerata crisi greca è scoppiata quando i titoli di debito ellenici hanno smesso di essere vendibili, perché pagabili non lo erano stati mai.
Aver mercificato il rapporto creditore-debitore «gli toglie la sua caratteristica di solidarietà intrinseca facendone un titolo negoziabile, toglie alla moneta il suo carattere di misura comune per renderlo un fattore di accumulazione, toglie al lavoro la dignità che si matura nella competenza per consegnarlo alla precarietà». È la lezione del caro vecchio Marx che torna a galla dall’oblio. Peccato che gli ultimi marxisti dei nostri tempi non tocchino mai, paurosi di scottarsi, il tema monetario e creditizio. Invece chi si oppone al lavoro-merce non può non opporsi al credito-merce. Cosa che non avviene perché a sinistra si è dimenticato pure Keynes, che nel capitolo 12 della Teoria generale condanna senza mezzi termini la liquidità come un «feticcio anti-sociale». E allora bisogna chiamare le cose con il loro nome, e qui sta la parte concettualmente più coraggiosa, benché non certo rivoluzionaria, del libro in esame: «l’idea che la moneta sia ricchezza e che il fatto stesso di prestarla meriti di essere premiato è la radice di un male endemico, sociale e insieme umano. Chiamatela come vi pare. Fino a un paio di secoli fa si chiamava usura. Poi gli economisti classici l’hanno chiamata rendita. E l’hanno aspramente criticata. Oggi si chiama tasso d’interesse». 
Usura e cooperazione
La schiavitù dell’interesse è, come avrebbe detto Aristotele, “odiosa” perché costituisce un prelievo forzoso alla fonte sui redditi, perché vampirizza il lavoro e l’impresa togliendo risorse per una sterile accumulazione puramente monetaria (la deflazione, in cui le banche sguazzano facendosi in pratica regalare miliardi dalla Bce senza girarli alle aziende), perché, con la foglia di fico della “finanza democratica” (i fondi gestiti dalle banche), fa credere al comune risparmiatore di poter guadagnare senza lavorare. E così si finisce col far lavorare senza guadagnare, come dimostra la proletarizzazione del ceto medio diffuso. 
Come se ne esce? Politicamente1, è chiaro. Ma non certo limitandosi a indignarsi, come è in voga dire oggi. Innanzitutto bisogna fare chiarezza teorica su quali sono gli obbiettivi di un’altra finanza: «La finanza deve assolvere due compiti essenziali: finanziare gli scambi e finanziare gli investimenti. Nessuno dei due compiti richiede il mercato del credito o il prestito a interesse. Il finanziamento degli scambi può avvenire attraverso sistemi di compensazione (improntati non alla crescita indefinita delle operazioni finanziarie, ma all’equilibrio degli scambi). Il finanziamento degli investimenti e dell’innovazione può avvenire attraverso forme di compartecipazione alle perdite e ai profitti (all’interno dei quali la crescita non è obbligata, ma semplicemente possibile)». 
Gli autori chiudono il libro, infatti, con una proposta innovativa: l’introduzione di un doppio corso, con un Euro a vocazione globale – perché piaccia o no la globalizzazione bisogna fronteggiarla – e una moneta di conto complementare, che rifletta i tessuti sociali ed economici locali. E si tratta di un’idea nient’affatto peregrina, dato che esistono numerosi esempi, antichi e attuali, di una felice assenza di mercati finanziari col prestito a interesse: dalle fiere dei cambi rinascimentali alle banche mutualistiche e cooperative, dalla finanza islamica al venture capital, dagli esperimenti di denaro a scadenza durante la Grande Depressione ad alcuni esperimenti di monete locali.
Essere ragionevoli è rivoluzionario
In concreto, la nuova divisa complementare sarebbe connessa all’istituzione di una camera di compensazione locale, una banca pubblica per piccole e medie imprese che abbiano almeno una parte di clienti e fornitori sul territorio. Ma pubblica non perché usa capitali pubblici ma perché pubblica è la logica che adotta e pubblico è il servizio che rende. Una specie di credito cooperativo, in quanto i partecipanti si concedono il credito mutualmente. «Ciò che caratterizza lo spirito della cooperazione non è il fatto che tutti sempre ‘si vinca’, ma piuttosto il fatto che, si vinca o si perda, il vantaggio e il peso sono sopportati insieme e secondo proporzione.» 
Banale e un po’ ingenuo riformismo? Mica tanto. Mettere in discussione l’idolatria dei “mercati” signori e padroni è già un atto rivoluzionario. Così come mettere all’indice il ricatto politico ed economico delle banche private come frutto di un vizio strutturale che ha il preciso nome di usura. Solo, non si può soltanto abbaiare alla luna2. Occorre sforzarsi di proporre alternative ragionevoli, imperfette e perfettibili come tutte le proposte. Ma è la direzione che conta. E a me pare quella giusta. 
Alessio Mannino 

Note

1.       L’ideologia dominante, quella liberal-capitalistica, l’unica rimasta sul terreno dopo la sconfitta del suo alter ego social-comunista, finora ha impedito di rompere il muro d’omertà sulla dittatura finanziaria: “la finanza ha potuto usurpare lo spazio della politica e asservire l’economia reale solo perché l’ideologia del mercato ha occupato lo spazio della finanza. Frutto di questa ideologia che nessuno, da trent’anni, ha saputo contrastare adeguatamente, il mercato finanziario in quanto tale è un problema. È un problema economico, politico e, infine, umano. È un problema perché ha preteso di fare mercato di una relazione sociale e umana fondamentale, quella fra debitore e creditore. Se solo la poniamo così, l’assurdità del proposito emerge da sola. Occorre dunque una riforma della finanza che le tolga lo spazio usurpato e la riannodi al compito mancato. Togliere alla finanza la forma del mercato, significa rimetterla al servizio dell’economia di mercato. E questo è un compito politico” (Amato-Fantacci, op. cit, pag. 6). 
2.       Anche perché siamo tutti complici, volontariamente o involontariamente, della mistificazione finanziaria: “il colpevole non è «qualcun altro», giacché i mercati finanziari siamo tutti noi, nella misura in cui condividiamo, socialmente e individualmente, i presupposti antisociali del loro funzionamento. In questo odioso regime dei creditori siamo tutti implicati. Innanzitutto, perché siamo tutti creditori: basta avere un conto in banca per contribuire a creare quella pressione sul debitore che può diventare intollerabile. Ma soprattutto, e più profondamente, perché anche chi non investe in borsa, talvolta perfino chi protesta contro lo strapotere di Wall Street, difficilmente mette in discussione ciò su cui i mercati finanziari si fondano: il dogma della liquidità. Ossia l’idea, apparentemente naturale, secondo cui il denaro contante (la liquidità, appunto) è la forma più sicura di risparmio e, di conseguenza, si può accettare di privarsene solo in cambio di un investimento che sia ugualmente liquido o che frutti un interesse adeguato. Detto altrimenti, questo è il credo generalizzato a cui tutti implicitamente ci atteniamo: la moneta è il sommo bene, e deve generare interesse nella misura in cui è data a credito. Chi accumula denaro, si aspetta che conservi il suo valore. Chi lo cede in prestito, si aspetta di riceverlo aumentato. Lo dà per scontato. E in effetti è scontato, letteralmente, in termini contabili. Così opera il dogma trinitario della liquidità: moneta-credito-interesse, uni e trini, inseparabili” (Amato-Fantacci, op. cit, pag. 10).


Pubblicato sulla Voce del Ribelle www.ilribelle.com  il 17 settembre 2012 col titolo “Capitalismo, il virus che intossica i mercati”.

2 commenti:

  1. Gentile Mannino, a ben guardare il nodo del problema è lo scambio concettuale del denaro inteso come PRODOTTO, anzichè strumento per acquistare un prodotto. E' probabilmente qui la radice del problema i cui effetti sono oggi così evidenti e visibili.
    A lei il merito, sicuramente, di porsi come osservatore "aperto" nell'analisi del problema. Rimettendo in discussione tutto. Compreso l'ovvio.
    Avevo provato a commentare lì al Ribelle, alcuni articoli, con l'obiettivo di stimolare analisi come la sua. Comiciando dal concetto di mercato. Lì al Ribelle, però, sono arroccati sui loro dogmi: l'iperliberismo e colonizzazione dell'inconscio... E da una sindrome da avangardia del tipo.. Io insegno perchè io so... Motivo per cui ho smesso di leggerli. Se non raramente. Beninteso: giusti i concetti ma non esaustivi.

    Tornando alla sua interssante analisi, sono perfettamente d'accordo con lei sul bisogno di far chiarezza torica "......... su quali sono gli obbiettivi di un’altra finanza: «La finanza deve assolvere due compiti essenziali: finanziare gli scambi e finanziare gli investimenti. Nessuno dei due compiti richiede il mercato del credito o il prestito a interesse. Il finanziamento degli scambi può avvenire attraverso sistemi di compensazione (improntati non alla crescita indefinita delle operazioni finanziarie, ma all’equilibrio degli scambi). Il finanziamento degli investimenti e dell’innovazione può avvenire attraverso forme di compartecipazione alle perdite e ai profitti (all’interno dei quali la crescita non è obbligata, ma semplicemente possibile)»".

    E' il concetto di banca che impedisce l'ipotesi sopra espressa. Perchè nel concetto di banca è implicito il concetto di denaro inteso come prodotto. Coloro i quali ritengono che una possibile soluzione sia la separazione tra banca d'affari e banca commerciale, non si rendono conto del peccato originale.

    Se il guadagno fosse consentito solo attraverso il prodotto, intendendo per prodotto tutto ciò che può assumere una forma, sia essa concreta o appartenente al mondo delle idee, il concetto di denaro tornerebbe ad assolvere la funzione oggettiva dello stesso. Quello di strumento. E azzererebbe la categoria dei creditori-debitori.

    Non sono d'accordo con lei riguardo ...."la deflazione, in cui le banche sguazzano facendosi in pratica regalare miliardi dalla Bce senza girarli alle aziende).... . E ovviamente, non perchè difenda le banche. Semplicemente, perchè attraverso quel denaro le banche hanno acquistato debito pubblico, capitalizzandosi. In difetto ci sarebbe stato il collasso. Il problema risale alla fine del 2008, quando è emerso il nodo dei derivati. Montagne di denaro creato a fini speculativi, sono svanite, diventando di fatto inesigibli e si è aperta l'attuale crisi che vede come soggetto debole, gli stati. Senza le banche gli stati collassano. Purtroppo.

    Rimango inoltre scettico sulla creazione di una doppia moneta, il cui fine è, per la nuova moneta, incarnare il nuovo concetto di economia.
    Credo che la ridefinizione concettuale avverrà, quando sarà terminata la crescita in ogni luogo del mondo. A quel punto, prima dello scoppio, sarà naturale arrivare alla tabuizzazione del concetto di denaro inteso come sinonimo di prodotto. Ci vorrà ancora molto tempo, per me, e ci saranno fasi alterne.
    Nel frattempo, lo sa meglio di me, molti non avranno la meglio.
    Articoli come il suo, però, aiutano a analizzare le cose. E a capire. E' già qualcosa.

    saluti

    andrea samassa

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  2. Chi cita la preferenza per la liquidità senza pronunciare il nome di Keynes e spacciandola come idea innovativa:
    - se lo fa consapevolmente non è una persona onesta, né tanto meno rivoluzionaria.
    - se lo fa inconsapevolmente non è un economista.
    Che l'abbiano scritte due bocconiani queste cose non mi stupisce affatto perché sono idee talmente scontate e poco utili che alimentano un'opposizione perfettamente funzionale al potere. Il problema è sempre questo: gli economisti studiano da manuali. Non hanno mai letto Keynes, Marx, Ricardo o Smith... Né tanto meno i contemporanei come Stiglitz, Galbraith o Krugman. Poi hanno un'intuizione più o meno originale che è stata in realtà superata da anni e pubblicano un libro, senza informarsi né informare. Ma ripeto, per un bocconiano un simile comportamento è perfettamente comprensibile, perché nasce come pedina del sistema. Che tornino fra i banchi di scuola (non reputo la Bocconi una vera e propria università) a farsi spiegare l'economia dai loro professori ben pagati.

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