Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

lunedì 11 luglio 2011

Il lavoro rende schiavi

Il troppo lavoro rende schiavi. Perderlo può uccidere. Le storie di imprenditori e lavoratori veneti suicidi, una ventina dal 2008 a oggi, raccontano il lato oscuro di un modello di vita tutto casa e lavoro, distrutto dalla logica spietata dell’economia globale.
Il primo caduto in questa guerra fra nuovi poveri è stato uno che viveva di stipendio, un grafico pubblicitario quarantaduenne di Padova. Il 28 settembre 2008 si è impiccato nel suo appartamento lasciando uno scarno e glaciale biglietto in cucina: «Io non sono il tipo che si fa pagare le bollette». A distanza di poche settimane, sempre nel Padovano, lo hanno seguito un impresario edile di 60 anni, che non ha retto al baratro di debiti in cui era sprofondato, e un padroncino di 36 anni trovato morto nel suo furgone con un testamento di tre parole nel telefonino: «Ho speso tutto». 
Nel maggio 2009 senza dire nulla si è tolto la vita Valter Ongaro, imprenditore 58enne della provincia di Treviso, che nella sua azienda di verniciatura del legno aveva dovuto licenziare otto dipendenti. Per lui erano come “fioi”, come figli. Viveva come il classico piccolo industriale veneto: in azienda dall’alba alla sera, ferie e feste ridotte al lumicino, sudore stress e sacrifici. Ma anche tanta soddisfazione che risplendeva nel bel giardino della villa bifamiliare che, manco a dirlo, sorge a poche centinaia di metri dalla fabbrica e che condivideva col socio, il fratello Daniele. Al suo funerale un ex compagno di scuola tentò di fornire una spiegazione razionale alla tragedia: «Qui, in trent’anni, da niente siamo arrivati ad avere tutto. Dalla bici siamo arrivati all’aereo, le macchine grandi. E ora pensare di tornare alla bici è insopportabile». Dopodiché la politica si avventò ignobilmente sul caso strumentalizzandolo con proposte di intitolare al suicida una “medaglia al lavoro” e polemiche conseguenti, a cadavere ancora caldo. 
Chissà invece cosa aveva scritto nella sua lettera d’addio al mondo Danilo Gasparrini, anche lui sulla sessantina, di Istrana nel Trevigiano, gasatosi dentro la sua auto vicino a un cimitero il 7 dicembre 2009. L’anno prima aveva diviso la società di marmitte e meccanica che gestiva col fratello, ma le due aziende non andavano più bene, e la sua andava anche peggio. Di un fatale senso di impotenza doveva soffrire Pietro Tonin, una ditta edile messa malissimo, uccisosi gettandosi nel fiume Piovego a Noventa Padovana. È stato ripescato il 3 gennaio 2010: aveva le mani legate dietro la schiena. Lo psicologo del lavoro Angelo Boccato, docente al Dipartimento di Sociologia dell’università patavina, ravvede nel gesto irreparabile la conseguenza di un cupio dissolvi senza scampo: «il piccolo-medio imprenditore di solito ha una personalità molto narcisista, quando sente di perdere terreno non condivide con nessuno il problema, non vuole dimostrare il fallimento, non sopporta di perdere potere e mezzi: il suicidio annulla tutto, anche la vergogna» (Corriere del Veneto, 18 marzo 2010). 
Non può annullare, però, le sorti dei dipendenti lasciati sulla strada. Il paròn di queste parti ha un rapporto simbiotico, di amicizia coi suoi sottoposti, li tratta da pari a pari, per lui come per loro non esiste differenza di classe o d’interesse. «Chi decide di farla finita, rientra spesso nella tipologia dell’industriale veneto che vive l’azienda come una seconda famiglia. È un paròn che quella famiglia non può sopportare di perderla», spiega Boccato. Il dramma di Paolo Trivellin, 46 anni di Noventa Vicentina, sta lì a dimostrarlo. Proprietario di un’impresa di intonaci, il 22 febbraio 2010 non ce l’ha più fatta a sopportare la situazione: da mesi non riusciva a pagare gli operai, scesi in piazza a protestare. Con macabra diligenza ha lasciato biglietti d’addio alla moglie, ai due figli e al cugino con cui gestiva l’azienda. Si sentiva in dovere di scusarsi: «Mi dispiace davvero se le cose sono andate male con la società. Ho sbagliato». 
Nel girone infernale delle morti da lavoro che non c’è, si sono dissolte le esistenze di dirigenti (Stefano Grollo, 43 anni, buttatosi sotto un treno nel maggio 2009 in un paesino vicino Treviso, vittima dell’ansia per la cassa integrazione imminente per il “suo” personale), di operai (cinque nella primavera 2009: un ghanese di 37 anni, cassintegrato della concia di Arzignano, a cui avevano tagliato luce e gas e che si è ammazzato bevendo soda caustica, un rumeno senza stipendio da qualche mese, un quarantenne del Padovano licenziato e datosi fuoco, un ex impiegato 32enne della chimica a Marghera, un veneziano disoccupato che si è tagliato le vene) e anche di politici (Lorenzo Guglielmi, assessore al bilancio del Comune di Rosà nel Vicentino, impiccatosi nel suo casolare dopo la perdita del posto di promotore finanziario). 
È un’intera società, insomma, quella del Veneto iper-lavorista, a essere corrosa dal male di vivere. Per molti, qui, la vita è il lavoro. Perciò, se non c’è lavoro non c’è più nulla per cui valga la pena di vivere. Ne deriva un estremo, pauroso pudore nel parlare di sé e dei propri problemi, anche coi giornali. Ha funzionato soltanto il servizio di SOS telefonico istituito dalla Camera di Commercio di Padova nel marzo dell’anno scorso. Nei primi sette giorni sono arrivate 120 chiamate, anche dal Centro e dal Sud Italia, per chiedere un supporto psicologico. Emblematica la prima telefonata: un angosciato consulente aziendale del capoluogo padovano che si è presentato come uno che ha sempre «lavorato duro e tanto» ma che è passato nel giro di un anno «dal lavorare 12 ore a zero». Senza poter sgobbare tutto il giorno, si sentiva uno zero. (a.m.)

3 commenti:

  1. Finalmente un articolo su questo tema. Grazie Alessio.

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  2. Grazie Alessio, è crudele relegare queste morti DA lavoro nel silenzio.Sono morti scomode, mostrano un fallimento totale del nostro "imprescindibile ed unico modello" di società che ci hanno inculcato le elite globali. Dobbiamo smetterla di essere loro servi, ma se perfino da Costituzione ci viene insegnato che se non si lavora non si ha dignità (Una repubblica fondata sul lavoro) perciò è giusto che chi non lavora si tolga di mezzo?
    Barbara

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