“Lavoratoriiii!
Prrrrrr!”. Il liberatorio gesto del gomito del vitellone contro lo sgobbone che
lanciava seriosamente l’Italia verso il boom, oggi può essere al massimo lo
sberleffo spento e un po’ patetico dell’ex giovane di trenta, trentacinque o
quarant’anni suonati che esorcizza il proprio stato di disoccupazione subìta fingendo una malinconica e
frenetica allegria. Lavorare per vivere resta in superficie il dovere figlio
dell’etica cristiano-borghese-comunista (Paolo di Tarso et Costituzione
stalinista del ‘36: chi non lavora non
mangia) in un mondo senza più borghesia, decristianizzato e archiviatore
dell’utopia. Ma la morale comune è il risultato dell’ideologia vincente nella
Terra globalizzata: prendendo a prestito il buon caro Marx, sotto una struttura fatta di supercapitalismo
finanziarizzato e virtualizzato, in cui ciascuno è tenuto a diventare
imprenditore di se stesso, appendice umana di una app disattivabile in un
millisecondo (modello taxi Uber, per capirci: it’s the sharing economy, bellezza!), pedina intercambiabile in una
precarietà che uccide i sogni all’alba, rendendo durissima la vita per chi
voglia ancora perpetuare la specie facendo una famiglia e dando un minimo di serenità
alla propria esistenza; sopra, una sovrastruttura
che immergendo in un cocktail autoconsolatorio di bovarismo e situazionismo
collettivo il Millennial mediamente sfigato, lo illude che il benessere
socialdemocratico della sua infanzia (papà e mammà avevano casa, impiego
sicuro, tempo libero per godere il più possibile del “diritto alla festa”) rimanga
ancora un promessa valida, agitandogli sotto il naso il mito americano del self-made man trasformatosi nel
frattempo in selfie-made man,
l’individuo tutto felice di mostrarsi su Facebook e Instagram mentre sfoga il
narcisismo dell’infelice. Formula dell’insoddisfazione perfetta: inseguire la
meta di un lavoro stabile e pagato abbastanza per divertirsi a narcotizzare la
condizione di schiavi salariati, non riuscendo però mai a raggiungerla. Lavori
come un negro o, ancor peggio, a singhiozzo, sempre appeso all’incertezza,
coltivando da bravo imbecille l’ostinato impegno nella speranza di un “buon
posto”, ti autocolpevolizzi se non ce la fai o denunci la tua povertà relativa,
contribuendo a quel genere di nicchia assolutamente innocuo che è il lamento da
proletario intellettuale e cervello in fuga, ricominci la giostra dei
curricula, rimandi la responsabilità di essere adulto per non rinunciare alla
tua sempre più disagiata agiatezza. Ti rassegni a sopravvivere anziché vivere,
covando il risentimento del frustrato che campa grazie alla pensione dei tuoi
vecchi, rimuovendo la fosca prospettiva di quando la Signora con la Falce
passerà a prenderseli: allora il declassamento da ceto medio e mediocre si
tramuterà in bufera che spazzerà via ogni rinvio, mettendoti di fronte
all’atroce realtà: ti hanno difeso dalla fatica abituandoti alla pappa pronta, rassicurandoti
che Stato e mercato garantiscono il diritto alla bella vita, e ora sei solo.
Sei solo un lavoratore sfruttato come sempre, ma col miraggio di spassartela
comunque. Cosi vivi per lavorare per poi non lavorare, anche perché nel
frattempo la Tecnica, grazie soprattutto all’insidioso regalo di Pandora che è il
sacro Web (ormai fattosi protesi corporea, sempre chini sul telefonino come
siamo), ti sta sostituendo con un apposito robot che farà scomparire intere
categorie di braccianti moderni, e tu sarai più superfluo di quel che già sei. La
tua forza-lavoro vale un milionesimo di meno del sigaro acceso e buttato per
sfizio da un Buffet o un Soros assisi su miliardi di dollari manovrati con un
click. Ma soltanto allorchè capirai quanto tu sia il protagonista della
tragedia di un uomo ridicolo, solo a quel punto la vendetta che fai crescere
ogni giorno in orto chiuso, fra te e te e i tuoi cari e se proprio ti senti
cittadino, aggregandoti a un movimento anti-sistema di facciata (la rivoluzione
non si fa su Internet, e ci sono ancora troppo pochi esuberi tecnologici in giro),
solo allora ti si schiariranno le idee sul valore del Lavoro: un dogma per farti
sopportare questa vita agra e concederti gli spiccioli da sputtanarti in beni
“posizionali”, le nuove “brioches di Maria Antonietta”, in un continuo
oscillare fra noia depressiva ed euforia maniacale, compromesso e rabbia,
consumo trattenuto e invito allo spreco, risparmio e indebitamento, aspirazioni
e fallimento. Sei più servo degli servi antichi, che almeno sapevano di esserlo
e non pensavano da ricchi per vivere da poveri. Ti libererai quando la finirai
con questo lavorismo
auto-schiavizzante, rimettendo quel male necessario che è lavorare dove
dovrebbe stare, cioè fra gli strumenti e
non fra i fini, esattamente come per
il demoniaco denaro. E ricordandoti, in un socialismo dionisiaco e tragico
destinato a pochi, che la gioia è il grasso che cola per il guerriero che si
ristora dopo aver combattuto per dignità, bellezza e onore. Non stare al gioco:
compra il meno possibile, ozia il più possibile, cerca di fare il possibile per
sabotare…
Alessio Mannino
"Lavoratoriii! Prrrrrr!"
Il Bestiario degli Italiani
Numero 3 anno 2
2017
Alexx ho una specie di sdoppiamento, leggo te e mi sembra di leggere Massimo, solo con più prosa, più mordente, più cattiveria... e mi perdo nei tuoi discorsi sognando che questa catastrofe che non è ancora cominciata finisca presto, ho 2 figli ormai q.rant'enni (in casa), che stanno mettendo in pratica quello che dici nelle Tue ultime righe...
RispondiEliminasperèmo ben, ciao
Ottimo davvero, Alessio! ti faccio i miei complimenti. L'ho stampato e attaccato alla parete accanto al letto; dopo ogni colloquio inutile o concorso andato male lo rileggo e... riesco a sentirmi un po' meglio. Solo, ho ancora qualche difficoltà a mettere in pratica l'esortazione finale.
RispondiEliminaVincenzo Del Medico